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Bilbobul: il “mondo scritto” a fumetti

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di Celeste Bronzetti


Bologna. Primo week end di marzo. Festival del fumetto. Respiro un’aria che mi riporta proustianamente ad un ricordo non troppo lontano. Ma quale? Ah..forse ci sono! Ferrara. Sempre in Emilia, ma stavolta in un’Emilia d’inizio ottobre, ancora intiepidita dalla lunga estate, in quel week end firmato Internazionale, in cui giornalisti da tutto il mondo si riunivano in nome di un’ informazione libera, giovane e culturalmente frizzante.

Da dove riaffiora questo ricordo inaspettato? Qual è il minimo comune denominatore tra quella Ferrara affollata e curiosa e questa Bologna sede di uno dei più importanti Festival della letteratura a fumetti? Apparentemente sembra difficile trovarlo. Eppure girando nei luoghi delle conferenze, ascoltando le parole di alcuni degli autori principali che vi hanno partecipato sono sicura di aver colto un’atmosfera vicina al fermento d’idee che aleggiava nella Ferrara dell’Internazionale. Come allora ci eravamo goduti una ventata d’aria fresca, da protagonisti, al centro di un mondo parallelo a quello asfittico della quotidiana informazione nazionale, televisiva e di testata, mi sembra di ritrovare qui, in queste aule bolognesi, lo stesso bisogno di un nuovo sguardo, la stessa esigenza concreta d’incanalare questo nostro complesso presente in nuove forme di analisi e scrittura.

Sembra come di toccare un’impellente necessità di cimentarsi in nuovi modi di leggere, per confermare, come se la vita di tutti i giorni non bastasse a dimostrarcelo, che il modello occidentale non è onnipotente, che la civiltà della scrittura, del foglio pieno di parole che si legge da sinistra verso destra non è l’unico mondo di scrittura possibile.

Mi concilio timidamente con questa atmosfera, proprio perché avverto sin da subito di essere capitata in medias res all’interno di un mondo, quello dei nuovi reportage a fumetti, che si sta formando da anni e di cui non so praticamente nulla. Sento, empaticamente, che in ballo c’è una forma di saturazione comune, che avverto quotidianamente sulla mia pelle, ma che probabilmente conoscono anche quelli che come me sono incuriositi dai discorsi di Igort, Chapatte, David B. È una saturazione percettiva, quasi fisica, nei confronti d’immagini, parole, informazioni, vere e proprie bombe che rischiano per la perpetua violenza e la rapidità costante con cui ci assalgono nella vita di tutti i giorni di perdere il loro suono significante, di diventare mute, o peggio ancora, di trasformarsi in rumore di sottofondo.

Calvino, non molti anni fa nelle Lezioni Americane, parlava di una forma di pestilenza che stava colpendo il mondo dei media, un’epidemia spaventosa che rischiava di smarrire irrimediabilmente l’intrinseca necessità che dovrebbe essere il nucleo proprio di ogni immagine visiva.

«In un mondo dove l’uso di Photoshop ha portato a ritenere i fotografi dei falsi testimoni, ora un artista permette loro di ritornare alla funzione originale: quella di reporter».

Questa sentenza appartiene all’autore di Maus, Art Spiegelman, uno dei fumettisti che hanno inaugurato il concetto di graphic novel. Ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale, Maus dipinge l’allegoria di un mondo esasperato in senso razziale, in cui la civiltà umana è sostituita da una meticolosa società animale, ogni razza ha un preciso ruolo storico e sociale: gli ebrei perseguitati sono topi, i nazisti gatti, i polacchi sono maiali e gli americani cani.

Con questa affermazione Art Spiegelman ci mette di fronte al concetto di “patto di fiducia” che ciascuno di noi instaura con l’autore, leggendo un testo storico o un reportage. Questo patto si regge, da un decennio a questa parte, su presupposti teorici sempre più precari, essendo sotto gli occhi di tutti la potenziale facilità di falsificazione dei documenti e delle stesse immagini fotografiche, mediante strumenti informatici sempre più all’avanguardia.

Chapatte, fumettista cosmopolita che lavora sia per Internazionale che per Le Temps, quotidiano svizzero con un taglio molto innovativo, riprende questa dichiarazione di Spiegelman per spiegare cosa distingue il suo lavoro da quello di un inviato televisivo o di quotidiano. Se l’obiettivo del reportage di guerra tradizionale è quello di riportare i fatti cercando di tendere all’infinito verso un ideale oggettività, quello che fa il giornalista a fumetti è avviare la sua ricerca proprio a partire dalla consapevolezza che l’oggettività è irraggiungibile. Nella sezione a lui dedicata all’interno di Le Temps viene così introdotto il reportage realizzato dopo un viaggio a Gaza nei primi mesi del 2009:

Depuis la bande de Gaza, ébranlée par trois semaines d’offensive israélienne au début de l’année 2009, Chappatte raconte, au-delà des préjugés, le calvaire des populations civiles.

(Dalla striscia di Gaza, lacerata da tre settimane d’offensiva israeliana all’inizio del 2009, Chapatte racconta, al di là dei pregiudizi, il calvario della popolazione civile.)

Questa brevissima introduzione è perfettamente coerente, nella sua concisione, con lo stile dell’artista e dichiara immediatamente la parzialità del suo punto di vista, la pone come presupposto stesso della narrazione. Raccontare la storia dal punto di vista dei civili è una delle costanti principali di tutti i graphic novel ambientati in paesi colpiti dalla guerra: volontà da cui parte anche Palestine di Joe Sacco, In the shadow of no towers dello stesso Spiegelman, To Afghanistan and back di Ted Rall, per citarne solo alcuni tra i più famosi.

E proprio uno dei prossimi lavori su cui si punteranno i riflettori, e non solo quelli della neonata critica della letteratura a fumetti, sarà il prodotto artigianale delle mani e delle matite colorate di Igort, altro fumettista legato all’Internazionale. Si tratta dell’esito di un viaggio durato parecchi mesi nei territori dell’ex Unione Sovietica, in particolare in Ucraina, e racconterà le storie di persone a cui è stato chiesto che cosa ricordavano, con tutto quello che questo verbo implica in quei luoghi.

Anche Igort, tra le fila degli invitati di Bilbolbul, ha toccato il tema del’oggettività parlando di questi racconti: la necessità di raccontare quelle storie attraverso i fumetti si è rivelata nel momento stesso in cui si è trovato ad ascoltarle, l’obiettivo del suo viaggio non era cavarne fuori materia per un libro. Parlando con la gente ha scoperto una voglia comune di raccontare. Lontano da ogni aspirazione d’imparzialità, Igort spiegava di aver piuttosto sentito l’esigenza di capire fino in fondo, vedere, toccare ciò di cui gli parlavano, costruirsene un’immagine. Ecco che i suoi personali interrogativi sono confluiti nell’esigenza di disegnare, costruire una storia a fumetti che potesse rendere conto di quei racconti, senza la pretesa di trovare risposte, ma solo quella di riportare e ricordare. Il problema del come farlo, con quale stile, colori, inquadrature è uno dei fili rossi di tutta la ricerca creativa dei nuovi reportage. In ogni singola scelta stilistica è convogliata una grossa responsabilità interpretativa: Igort l’ha chiamata “il dovere dell’onestà”. L’onestà non implica nessuna pretesa imparzialità, anzi racchiude in sé proprio l’infinita relatività del punto di vista umano e insieme il suo dovere d’interpretare. Colpisce un uso così giusto ed essenziale di questa parola, onestà, immensa ma infinitamente umana, in un mondo dove il significato che porta con sè è spesso nascosto sotto una patina collosa d’inautenticità.

Un certo ricercato fair play mi è parso uno dei fili conduttori più interessanti da seguire in tutto il festival, un bisogno condiviso di usare le giuste parole, i termini esatti per definirsi, depurati da scorie, con un’apertura nuova alla risemantizzazione delle zone comunicative più abusate.

Il dovere di costruire immagini mosse da una necessità interna, che raccontino una particolare relazione tra soggetto e mondo è una delle prerogative impellenti di ogni letteratura, dal romanzo al reportage. Ecco perché credo che qualunque nuovo linguaggio che si mostri all’altezza di questo compito, abbia il diritto di essere seguito e indagato e chiunque lo incontri abbia il dovere di conoscerlo. Se questo comporti una revisione dei canoni, o l’invenzione di nuovi parametri critici per poter definire un libro a fumetti, la letteratura ha il dovere di farsene carico: il fumetto sta dimostrando di poter trattare profondamente molti più argomenti di quelli che l’etichetta di “letteratura per bambini”, a cui è stato condannato fin dalla sua nascita, non gli assegnasse.

Una diffusa e sempre più accentuata contaminazione tra i generi letterari ci ha dimostrato negli ultimi decenni che ogni classificazione rigida risponde solo a mere esigenze nomenclatorie. Siamo chiamati ad aprirci sempre più al concetto d’interdisciplinarità, all’aggiustamento costante dei margini in cui incaselliamo il mondo, a rincorrere il mondo, a finire e poi ricominciarne la storia.

«L’inizio è il luogo letterario per eccellenza perché il mondo di fuori per definizione è continuo, non ha limiti visibili. Studiare le zone di confine dell’opera letteraria è osservare i modi in cui l’operazione letteraria comporta riflessioni che vanno al di là della letteratura ma che solo la letteratura può “esprimere”».

(da Cominciare e finire, Appendice di Italo Calvino, Lezioni Americane)




La volta che abbiamo incontrato Makkox

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ci ha detto che il suo libro di fumetti preferito è Blankets; che è appassionato di fantascienza, proprio quella tecnica, che annoia  chiunque non abbia fatto due esami di fisica; e che quindi Battlestar Galactica sì, ma Star Trek proprio no. E poi che gli piacerebbe molto essere il primo fumettista pubblicato da Adelphi, e che si sente più a suo agio alla Fiera del Libro che non a quella del Fumetto.

Secondo lui l’editoria sta cambiando molto in fretta; e  ai giovani appassionati di disegno e di fumetti consiglia di scrivere e disegnare tanto, e poi di mettere tutto online, fregandosene di soldi, di assomigliare a modelli già esistenti, di limiti editoriali. Perché il web è tutto, è una vetrina enorme. E perché lì si può davvero sperimentare.

Del suo ultimo libro, e delle sue due anime artistiche, ne abbiamo già parlato qui.


“Se capisci cosa intendo”. Su I. di Francesco D’Isa

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di Silvia Costantino

Francesco D'Isa, I., Nottetempo 2011

Francesco D’Isa, I., Nottetempo 2011

Nel 2011, dopo la pubblicazione a puntate sul Post.it, esce per i tipi di Nottetempo il lavoro a fumetti di Francesco D’Isa, I. Si tratta di un libro a formato quadrato, privo delle canoniche strisce da fumetto o di un’impostazione narrativa lineare. Ogni pagina contiene un riassemblaggio e una rielaborazione di immagini più o meno note, cui si aggiungono poche righe di testo – nei balloon e non – che raccontano la quête del protagonista, I., alla ricerca della propria identità.
Non è semplice trovare una definizione per I. : canonicamente, il lavoro di Francesco d’Isa rientrerebbe nel genere del graphic novel, il romanzo per immagini che ormai si sta – finalmente – affermando anche in Italia. E dunque come tale andrebbe recensito. Seguendo uno schema canonico: prima accenni alla trama, con qualcosa sul tratto del disegno o sullo stile dell’autore, poi le impressioni e le riflessioni che suscita il libro, personali e critiche. Bene.

La trama. I. racconta di un’entità che cerca se stessa. O meglio, di un qualcosa che cerca di capire cosa esattamente sia. O forse di un pensiero, capace di pensarsi in tutte le forme esistenti al mondo. E continua una ricerca irrisolvibile per tutte le tavole da cui è composto il formato quadrato di I. “sono la morte. Ma potrei sempre cambiare idea. Ed essere un annaffiatoio.”
Il tratto. D’Isa non disegna, di fatto, ma rielabora illustrazioni, quadri antichi, creando una mescolanza kitsch di pin up e danses macabres, talvolta lasciando pagine quasi vuote, altre volte riempiendole all’inverosimile. L’effetto, con l’accostamento al testo, riporta alla mente certe MEME: la classica immaginetta stilizzata da cartolina con una didascalia che ne distorce il senso e produce una battuta spesso cinica.

(con le dovute differenze)

 

Impressioni personali: ho pensato molto, nel corso della lettura, ad un altro graphic novel italiano, uno dei primi e più autenticamente originali, vale a dire il Grafogrifo di Riccardo Falcinelli e Marta Poggi. Lì la storia è più lineare, ma rimane la tecnica dell’elaborazione di immagini “altre”, che però mantengono chiaramente la marca dell’autore. Ci ho pensato perché anche in Grafogrifo si pone una questione più profonda di quello che la storia sembra raccontare: da una storia gotica su un libro proibito, si arriva a  considerare questioni sottese di hacking e rivoluzioni “informatiche” senza computer, il tutto in una storia godibilissima e leggibile a più di un livello. A lettura ultimata, dopo essermi più volte ricreduta, ho ritrovato questa somiglianza, sebbene con importanti distinzioni di fondo.
Le riflessioni e le impressioni, dunque, sono la cosa più difficile. Cosa si evince, leggendo questo volume in cui la filosofia medievale, la mistica, l’ironia caustica e un vago senso di grottesco si confondono e si mescolano pagina per pagina?
Cercherò di spiegarlo, sperando di non risultare confusa come alla prima lettura.

Innanzitutto: è vero, alla domanda di I. non c’è una risposta. Ma dal momento in cui questa domanda viene posta al momento in cui si arriva alla conclusione umoristica di cui sopra, si compie un percorso, scandito dai capitoli di un indice tipicamente medievale (“dove I. …”): una ricerca, sempre più pressante, che porta il protagonista a conoscere forme di vita e di rapporti, a indagarle e spaventarsene. L’amore, ad esempio, o la guerra, o il lavoro. In uno spazio brevissimo, si esaminano – spesso con battute fulminanti purtroppo impossibili da riportare, perché troppo legate alle immagini: il parlombaro e i suoi splendidi “se capisci cosa intendo” – numerose forme dell’esistere, legate ad altrettante domande. Man mano che la ricerca di I. progredisce, aumentano le domande,  fino ad arrivare all’inevitabile risposta. Senza azzardare interpretazioni pretenziose, si può pensare che il riconoscimento di I. come pensiero che pensa se stesso pensante sia il suo più alto risultato (no, I. non è Dio e non è motore immobile, tutto il contrario semmai). La coscienza di una coscienza è una risposta soddisfacente? Sì, se si pensa che conduce all’accettazione di se stess* in quanto vita, all’accettazione dell’esistente in ogni sua manifestazione: morte o scarafaggio, pensiero o innaffiatoio.
Per quanto riguarda lo stile, ancora una volta devo smentire quanto detto in precedenza: come giustamente rivendica l’autore all’inizio del romanzo, se le immagini sono di pubblico dominio o sotto licenza CC, “io le ho scelte, montate, assemblate e (talvolta) modificate per ottenere la storia. Lo stile grafico e l’omogeneità dell’opera sono il frutto delle mie scelte, del montaggio e delle immagini a disposizione”. Ciò è evidente, anche quando le immagini sono estremamente differenti: le marche più visibili sono ovviamente quelle immutabili – il font dei fumetti, Yanone Tagesschrift, un (tardo)gotico minuscolo; la scelta di evidenziare la presenza di I. attraverso il colore rosso; il formato quadrato che rende ogni pagina una tavola. Ma le somiglianze e i richiami sono decisamente più sottili, e si ritrovano pagina per pagina, in un certo tratteggio o nell’eccessiva sgranatura di alcune immagini. E, ovviamente, nel testo, che è il vero collante di tutto il volume, ed è interamente opera di D’Isa, anche quando copia Pasolini e si permette di modificarlo (“sfacciato!”).
Sul testo bisogna aprire un nuovo paragrafo. L’inquietante mescolanza di umorismo e filosofia cui dà vita Francesco D’Isa può innervosire, inizialmente, o suonare velleitario. Forse è anche un effetto voluto, visto il portato ampiamente provocatorio del romanzo, il ripetersi ossessivo delle domande che arriva al parossismo. Piano piano si arriva a rendersi conto che i tentativi di I. sono i tentativi di tutti, che le interpretazioni dei sillogismi, o di questioni esistenziali decisamente complesse, sono sintetizzate nel modo più umano possibile, nel corso della quête dell’amorfo (o polimorfo) protagonista. Sono poche battute per volta, nel corso di pochi capitoli, eppure di una densità non comune per un graphic novel. Ci vuole tempo per leggere e comprendere ogni capitolo, anche perché le immagini che accompagnano il testo, spesso, non sono immediatamente esplicative – tutt’altro, per non parlare di quando le immagini non ci sono affatto. E dunque è necessario pensare, meditare, porsi le stesse domande che I. pone a se stesso. Del resto: ma a chi le pone, realmente, queste domande? L’interlocutore di I. sono i molteplici personaggi che incontra, ma il primo è, ovviamente, il lettore. Il difficile dialogo che si instaura durante la lettura è una meditazione costante: così come le miniature all’inizio di un codice di preghiere dovevano aiutare e stimolare la riflessione.
Così I. si rivela un codex contemporaneo (il riferimento alle miniature non era casuale: prima dell’oro e delle illustrazioni variegate, il minio è il colore rosso dei capolettera, l’unico presente nelle tavole di I.), capace di rielaborare, potenziare le grandi questioni dell’esistenza, senza dimenticare la leggerezza.

Qualche nota sull’autore. Francesco D’Isa è un artista fiorentino, recentemente anche berlinese. Come molti altri ha esordito sulla fanzine autoprodotta “Mostro”(comprata regolarmente, con il suo gusto ‘sovversivo’, da certe giovani liceali di provincia), proseguendo un percorso sempre più preciso di elaborazione grafica delle immagini. Il suo progetto più importante è Pornsaints.org (a cui sempre certe ex-liceali di provincia rimpiangono amaramente di non aver partecipato quando venne loro offerta la possibilità). Attualmente D’Isa sta pubblicando, sempre sul Post,  Feuilleton pornographique: “come nei classici feuilleton, il contributo dei lettori ha influito nella creazione dell’opera e ha reso la gestazione più appassionante.” Lo stile, a dimostrazione che uno stile c’è, è chiaramente riconoscibile, l’umorismo è lo stesso, e così la leggera sensazione di inquietudine a lettura ultimata.


L’arte sublime dell’immaturità. Blast di Manu Larcenet.

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di Chiara Impellizzeri

1 copertina blast

Una delle uscite più interessanti del 2011-12 è il graphic novel Blast di Manu Larcenet. Progetto ancora in via di pubblicazione, il fumetto è uscito in Francia con i primi tre volumi, Grasse carcasse, L’apocalypse selon Saint Jacky e La tête la prémière. A fine 2012 la Coconino Press ha tradotto in Italia il primo volume, Grassa carcassa.

Blast racconta la storia di Polza Mancini, un clochard obeso e alcolizzato, tenuto in stato di fermo ed accusato di violenze su una ragazza entrata in coma. Due investigatori sono incaricati di interrogarlo per riuscire a risalire, attraverso i suoi deliri e le sue lunghe digressioni, alla verità sul delitto. Tuttavia Polza si rifiuta di parlare direttamente del crimine e per spiegare la sua storia sceglie di cominciare dal momento della morte del padre, quando, non riuscendo a sostenere la vista del corpo morente, scappa dal suo capezzale. Dopo aver ingurgitato litri di alcol, merendine e barbiturici, Polza sviene sul bordo di una strada di periferia e ottiene per la prima volta un Blast. Il Blast è una sorta di momento epifanico, una pacificazione dei sensi indotta da sostanze stupefacenti o stati psichici d’eccezione, che permette a Polza di sentirsi leggerissimo, liberato dal suo grasso fardello, e culmina nella misteriosa visione di un Moai. Il padre, un comunista italiano emigrato in Francia (il nome Polza viene da Pomni Leninkie Zavety, «Ricordati dei precetti di Lenin») che ha speso la vita in un lavoro massacrante e ha cresciuto da solo i suoi figli, rappresenta per Polza un modello di virilità e di sacrificio che sin da bambino ha sentito di non poter mai eguagliare. I loro corpi così difformi sono per lui il simbolo di una divergenza profonda: da un lato l’asciuttezza del rigore morale, dall’altro l’obesità ripugnante di desideri bulimici.
Dopo la morte del padre Polza può quindi dichiararsi libero da ogni legame con qualunque Legge: lascia la moglie e il lavoro da giornalista gastronomico e sceglie di vivere per strada, nei boschi, nelle discariche delle banlieu, perseguendo come unico scopo quello di ricreare il Blast. In questo viaggio, che inizia parodiando la scelta idilliaca della ‘vita nei boschi’ e diventa progressivamente una discesa infernale verso l’autodistuzione, Polza incontra una galleria di romanzeschi personaggi dei bassifondi: una comune di mendicanti, un Saint Jacky spacciatore di “apocalissi” d’eroina, un professore schizofrenico che sogna di rifondare l’estetica della pornografia…

E' stato necessario che mio padre morisse perché non mi bastasse più il mio minuto regolamentare...Oggi, se ho bisogno di tempo, lo prendo"

“E’ stato necessario che mio padre morisse perché non mi bastasse più il mio minuto regolamentare…Oggi, se ho bisogno di tempo, lo prendo”

E tuttavia Polza non è un narratore attendibile: oscilla tra la posa eroico-sentenziosa dell’ ‘immoralista’ e la confessione più aperta e ingenua, omette le verità più colpevoli, è affetto da allucinazioni visive, è stato più volte internato in un ospedale psichiatrico… Attraverso le obiezioni dei detective il lettore comincia allora ad avere un’idea più complessa del personaggio e del suo passato profondo. Chi è allora Polza Mancini? Un assassino, un fou savant o semplicemente un banale mitomane?

Se la storia è accattivante quello che più colpisce in Blast è lo stile grafico. Con una maturità espressiva che non ha precedenti nella sua opera, Larcenet riesce a far parlare ogni immagine molto più di quanto non faccia la didascalia che l’accompagna.

rami-pollock

Il tratto, preciso ed essenziale, rende con straordinaria profondità l’espressività di ciascun personaggio. Semplici macchie di china restituiscono i simboli della progressiva abiezione del personaggio: la sporcizia, il vomito, il sangue, gli umori. Le sfumature di luce sono rese attraverso un ricchissimo gioco di chiaroscuri e acquarelli che restituiscono in ogni vignetta la tensione emotiva della scena. Moltissime quindi sono le tavole mute e statiche, senza didascalia, in cui a parlare sono solo le immagini raggelate del paesaggio o gli sguardi fissi dei personaggi. Spesso queste vignette mute interrompono il racconto o marcano un passaggio di scena e prolungano, tenendolo in sospensione, l’effetto lirico o traumatico delle vignette precedenti. Talvolta ancora le didascalie che riportano il racconto del protagonista non vengono legate a vignette che ne rappresentano una descrizione oggettiva, quanto piuttosto a ricordi o allucinazioni di Polza che fanno da contraltare alle parole, potenziandone o contrastandone l’effetto: un esempio magistrale su tutti, la vignetta finale del terzo volume.

Un volo di pipistrelli: "Lampi scuri, appena visibili, scomparivano bruscamente, rimpiazzati da altri, che a loro volta si dileguavano nel buio. Spettatore ipnotizzato, ero affascinato dal succedersi di queste onde, silenziose e frenetiche"

Un volo di pipistrelli:
“Lampi scuri, appena visibili, scomparivano bruscamente, rimpiazzati da altri, che a loro volta si dileguavano nel buio. Spettatore ipnotizzato, ero affascinato dal succedersi di queste onde, silenziose e frenetiche”

Attraverso i disegni emerge una cultura grafica molto eclettica e citazionista : un volo di pipistrelli che ricalca un quadro di Mirò, un intrico di rami che ricorda un Pollock, i capelli da Gorgone di una punk assassinata sotto un ponte… Vi sono anche elementi fortemente espressionisti, come il becco arcuato del padre di Polza (finora l’unico personaggio contrassegnato da un tratto non umano) che caratterizza aggressivamente la sua figura perennemente muta ed al contempo fa rassomigliare il suo corpo malato all’immagine di un uccellino morto sul selciato.

Proprio questo paragone visivo è un esempio dell’abilità narrativa di Larcenet : meglio di quanto faranno le successive dichiarazioni verbali di Polza, la vignetta suggerisce al lettore il ricordo di un’immagine infantile scioccante (il casuale ritrovamento di un uccellino caduto da un ramo) rendendo con straordinaria potenza la posizione di Polza di fronte alla morte del padre: una manifesta regressione all’infanzia, un sentimento d’impotenza, di spaesamento e di orrore per la fragilità di quel corpo.

Infine la parte più interessante del fumetto è certamente quella in cui Larcenet rappresenta il Blast. Il mondo percepito da Polza nel momento epifanico è reso metaforicamente come una progressiva invasione, all’interno della vignetta in cui Polza si muove, di disegni infantili in accesi colori pastello.  È interessante notare poi come Larcenet scelga di non rappresentare mai il blast in soggettiva: nelle vignette la focalizzazione è sempre esterna, Polza rimane sulla scena, rappresentato con il consueto stile e in bianco e nero. Solo negli ultimi tomi, con il progressivo aumentare della potenza del blast, la fusione panica del personaggio nel mondo della sua visione è raffigurata inserendo lo stesso Polza nel vignetta come disegno infantile. Questa scelta suggerisce quindi che l’esperienza del blast sia qualcosa che oltrepassa la semplice allucinazione: nel fumetto non mancano vignette ‘in soggettiva’, ma si riferiscono sempre o all’osservazione di scene della realtà, spesso misere e traumatiche, o a visioni di Polza che si inseriscono nella sua quotidianeità di schizofrenico e sono quindi raffigurate in bianco e nero.

primo blast

“In principio un rumore secco nella mia testa… Esattamente lo stesso suono insopportabile d’un osso che si rompe. Poi fu come se un buco si fosse aperto in cima al mio cranio. Venivo aspirato fuori. Una fatica primale risaliva alla mia nascita. Pesavo cento volte il mio peso. Vi lascio immaginare.”

A partire dal secondo tomo, Larcenet usa il colore anche in altri momenti: per raffigurare l’insorgenza improvvisa di un ricordo traumatico rimosso, per rappresentare in primo piano oggetti artistici (i dipinti in casa dell’operaio suicida nella renardière o i collages dei pazienti del manicomio) e per rappresentare i sogni di Polza. Dunque il rimosso, l’attività artistica e l’inconscio sono tutti tratti che, attraverso l’uso del colore, vengono implicitamente apparentati al Blast. Eppure in questi casi la tavolozza di colori è profondamente diversa, tendente a sfumature cupe o rossastre, mentre il Blast rimane l’unico momento in cui il tratto del disegno è infantile e i colori sono brillanti e gioiosi: solo nel Blast infatti Polza realizza se stesso come opera d’arte e compie al contempo la sua regressione. Una vignetta esplicita il processo, rappresentando l’Apoteosi di Polza in un cielo paradisiaco (e che ricorda, non casualmente, il sesso femminile):

Qui, io cicatrizzo. Il mio corpo non è più una punizione. Qui, io sono un'opera."

“Qui, io cicatrizzo. Il mio corpo non è più una punizione. Qui, io sono un’opera.”

Il graphic novel è ancora incompleto ed è difficile prevedere a cosa porterà: cosa sia di preciso il Blast, che senso nascondano le visioni e i sogni del protagonista, chi sia Polza e dove lo porterà il suo assurdo viaggio, tutto questo è da scoprire nei prossimi volumi del fumetto!


Il disagio di essere Adèle

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di Lorenzo Mecozzi

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Che La vie d’Adèle (ultimo film di Abdellatif Kechiche) abbia vinto a Cannes per motivi extrartistici, ossia per le tematiche trattate e per il modo in cui ha scelto di trattarle, piuttosto che per le qualità intrinseche del film, è possibile se non addirittura probabile. Eppure si tratta di un film di cui vale la pena parlare.

Probabilmente però una precisazione è d’obbligo: parlare di un film così incentrato sulle tematiche che ha scelto di trattare, l’amore omoerotico nella sua variante femminile, è difficile, perché l’argomento si presta facilmente a interpretazioni moralistiche o peggio autoritarie. Ed è tanto più difficile quando a parlarne è un uomo eterosessuale. Si tratta di una precisazione d’obbligo non tanto perché ritenga che a parlare delle condizioni delle varie minoranze debba essere chi quella condizione la vive ( non si sta dicendo quindi che debbano essere gli omosessuali a parlare di omosessualità, gli immigrati di immigrazione o ancora le donne a parlare del ruolo della donna nella nostra società, tanto più che in questo caso non si può neanche parlare di minoranza, se non in termini di rapporti di forza). è una precisazione d’obbligo perché appunto si percepisce il rischio di imporre un discorso altro ad una condizione che, se non la si vive o non la si studia approfonditamente, si rischia di non conoscere adeguatamente. Il pericolo è dunque quello di imporre d’autorità il discorso maschile e quello eterosessuale ad una condizione esistenziale che ne necessita altri per essere spiegata e conosciuta.

Detto questo si cercherà di evitare la trappola retorica appena descritta parlando del film con l’idea che il testo possa essere affrontato a partire dalla sua tematica specifica ma anche considerandolo come un film che tratta della tematica erotica tout court, e non solo quella specificamente omosessuale.

La sinossi del film è presto detta: come anticipato dal titolo l’opera racconta la vita di Adèle (Adèle Exarchopoulos); o meglio ne racconta una parte significativa, suddivisa in differenti momenti, che si sviluppano lungo un arco di tempo di circa sei o sette anni. Nella prima parte viene raccontato l’incontro e l’innamoramento di Adèle con Emma (Léa Seydoux), e quindi l’emergenza, nella protagonista, di un desiderio omoerotico che sarà progressivamente esplorato nelle parti successive del film. La seconda infatti narra, dopo la genesi, l’evoluzione e la trasformazione della relazione amorosa tra le due protagoniste, che nel frattempo hanno iniziato a convivere e che possono dunque stabilizzare la loro iniziale avventura clandestina attraverso la quotidianità della convivenza. Ma la seconda parte termina con un adulterio e con la fine della storia d’amore, permettendo al regista di concentrarsi, nell’ultima parte, sull’elaborazione della perdita e sul tentativo di superamento, da parte di Adèle, di una realtà che non c’è più. Tutto questo è raccontato focalizzando interamente l’attenzione sulla protagonista, e sulla sua interprete, tanto da rendere molto spesso inconsistenti, se non proprio stereotipati, i personaggi che la circondano – probabilmente anche il personaggio di Emma, a tutti gli effetti co-protagonista del film, esce indebolito dall’eccessiva enfasi con cui il regista decide di concentrarsi su Adèle. Ma si tratta di un’attenzione dedicata propriamente alla fisicità della protagonista e a come il corpo di Adèle reagisce alle pulsioni cui si trova sottoposto.

La tematica (omo)erotica è infatti in gran parte trattata a partire dalla sua dimensione sessuale e sensuale, sin dalle prime scene. Adèle inizia a frequentare un compagno di liceo, i due passano del tempo insieme, vanno al cinema, si baciano. Ad un tratto, però, come accade alla protagonista de La vie de Marianne di Marivaux (vera e propria mise en abyme della scena dell’innamoramento), Adèle incontra per strada una sconosciuta dai capelli blu (e Il blu è un colore caldo è il titolo del graphic novel da cui è tratto il film), e tutto cambia. Ma il cambiamento non sopraggiunge attraverso le riflessioni di Adèle su quant’è successo: la dimensione psicologica della protagonista, o almeno la resa verbale dei pensieri che la attraversano, ci è del tutto impenetrabile. È ancora una volta il corpo di Adèle a parlare, attraverso l’insoddisfazione (etero)sessuale provata nel rapporto con il suo coetaneo Thomas, ma soprattutto attraverso l’irruzione violenta del desiderio durante la notte: sognando un rapporto sessuale con la giovane sconosciuta, Adèle si ritrova a masturbarsi nel sonno senza la consapevolezza di cosa le stia accadendo. Il desiderio, dunque, emerge e sconvolge la relativa quiete della vita di Adèle. Successivamente, grazie ad un amico omosessuale che la porta con sé in un bar gay, nonostante Adèle non abbia rivelato a nessuno cosa le stia succedendo, avviene il secondo incontro con Emma, dal quale inizierà poi il loro rapporto. Inizialmente si tratta di un lento apprendistato amoroso: le due ragazze si frequentano amichevolmente, ma progressivamente Adèle si sente sempre più attratta da Emma, fino al punto da azzardare un bacio. Ancora una volta nulla ci viene detto di come l’attrazione venga percepita emotivamente dalla protagonista, e le uniche tracce che Kechiche lascia intravedere del progressivo innamoramento sono quelle della presenza e della vicinanza fisica tra le due ragazze.

Quando la relazione inizia, poi, il regista sembra concentrarsi quasi esclusivamente sulla dimensione sessuale. Tranne i due incontri delle ragazze con le rispettive famiglie (scene che servono soprattutto a tracciare sociologicamente i differenti milieux di provenienza: borghese, colto ed aperto, quello di Emma; più tradizionale quello di Adèle), la maggior parte della relazione amorosa, nella prima parte, è ripresa in camera da letto. Kechiche si intrattiene a lungo sui corpi delle due ragazze, sui loro gesti, sui loro amplessi, e per questo ha ricevuto la maggior parte delle critiche rivolte al film. Si è parlato molto di un atteggiamento voyeuristico da parte del regista, arrivando a mettere in discussione l’opportunità di dedicare tanto spazio (e tanti dettagli) ai rapporti sessuali. Eppure viene da pensare che simili critiche non sarebbero sorte se si fosse trattato di erotismo eterosessuale: ciò che si vede ne La vie d’Adèle dopotutto non si discosta molto da quanto si può vedere in una serie HBO, da quanto può aver mostrato Bertolucci in The dreamers o McQueen nel suo tutt’altro che vergognoso, ed anzi un po’ pruriginoso, Shame. E nel caso di Kechiche non si tratta, come pure è stato scritto, di democratizzare youporn: l’intento, piuttosto, credo fosse quello di dare corpo, ed immagine, ad una porzione di reale che non avrebbe avuto, altrimenti, testimonianza presso il grande pubblico. La sessualità omosessuale d’altronde è troppo spesso relegata in rappresentazioni che descrivono quasi esclusivamente i territori estremi del mondo gay. Troppo spesso, cioè, l’omosessualità è rappresentata, anche con intenti politici, nelle sue forme antiborghesi, promiscue e non normalizzate. Kechiche, invece, sceglie di fare l’opposto e subito abbandona i bar gay per concentrare l’attenzione su ciò che accade nella vita di una coppia, descrivendola soprattutto in quanto tale. Se solitamente l’omosessualità viene raccontata perché può rappresentare una movimento di fuga e di superamento della condizione borghese, ne La vie d’Adèle ci viene narrato il desiderio di costruire una relazione stabile, codificata, familiare. Così facendo Kechiche ci mostra come all’interno di una nuova famiglia omosessuale possano ricrearsi i medesimi ruoli che caratterizzano la maggior parte delle “famiglie tradizionali”. Tra Emma ed Adèle si instaurano rapporti di forza che danneggiano la felicità domestica. La prima, forte della propria apparente emancipazione, si ripropone nel ruolo maschile di guida di Adèle che, invece, vorrebbe semplicemente godere la pace di una vita tranquilla con la persona che ama. Così facendo, Emma, lungi dall’esaltarlo, mortifica il desiderio di Adèle, che vedeva nella semplice possibilità di vivere la loro relazione la condizione sufficiente per la felicità. Ma se ciò avviene è proprio a causa di quella mancanza di autocoscienza che pervade la protagonista e caratterizza le scelte registiche. Mancanza che è stata rimproverata a Kechiche ma che andrebbe invece, se solo avesse un senso farlo, rimproverata ad Adèle.

Adèle sembra non riflettere mai sul proprio cambiamento, sull’attraversamento che compie verso un mondo che sembra non appartenerle. In questo senso, la scelta di voler mostrare la vita di Adèle come una vita tra tante senza politicizzare eccessivamente il suo orientamento sessuale sembra essere smentita dallo sviluppo della storia, piuttosto che da una volontà autoriale espressa apertamente. Kechiche non problematizza l’omosessualità di Adèle perché è lo stesso modo in cui la protagonista gestisce la propria relazione che arriva a porre la questione. Adèle non è pronta, è sempre sola, anche quando è in compagnia dei suoi coetanei. Nessuno, né tra i suoi amici né nella sua famiglia viene a conoscenza di ciò che le accade. Ad un tratto resta davvero isolata nel nuovo mondo in cui si trova a vivere, il mondo di Emma, ma nulla sembra cambiare in lei. Si tratta di un ingenuo attaccamento alla vita e alle sue pulsioni che la conduce verso un’inevitabile crisi di fiducia. La solitudine in cui sprofonda la porta alla paranoia, alla gelosia. Inizia a sentirsi fuori posto, doppiamente: come ragazza e come compagna, e non è un caso, quindi, che tradirà Emma con un ragazzo che è anche un suo collega nella scuola in cui insegna. Respinta da un mondo che la tiene ai margini, Adèle ritorna nel mondo dal quale il suo desiderio cieco l’aveva scacciata. Ancora una volta è la sfera fisico-sessuale a farsi spia dello spaesamento di Adèle: in una delle scene finali, quando le due ragazze si rivedono a distanza di anni dalla fine della loro storia, Adèle domanda ad Emma se con la nuova compagna sia sessualmente appagata come lo era con lei.

Il film di Kechiche, dunque, lungi dal trattare neutralmente la tematica dell’omosessualità, rappresenta un’interessante problematizzazione del rapporto tra desiderio e sue possibilità di realizzazione. Adèle sembra cadere vittima di un’ossesione che eccede le sue possibilità di comprensione, e ne diviene vittima. Nell’apparente libertà con la quale si avvicina al mondo omosessuale si rileva in realtà il negativo dei limiti che ne impediscono un’adesione totale. Ed è forse questa ambiguità di fondo che rende interessante La vie d’Adèle: quest’abbandono totale al desiderio che si ritorcerà contro l’io desiderante, ricordando allo spettatore che io e desiderio sono sempre storicamente situati ed un’emancipazione piena non è mai possibile se non a partire da questa consapevolezza.


Nevermind. Intervista a Tuono Pettinato

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di Virginia Tonfoni

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Gli occhi vuoti, i capelli lunghi arruffati, la barba incolta e in generale un’espressione che, nonostante l’essenzialità del tratto inconfondibile, non avremmo dubbi a definire sconsolata. Così è il Kurt Cobain che campeggia sulla copertina turchese − turchese cielo, turchese come l’acqua della copertina del disco omonimo − dell’ultimo libro di Tuono Pettinato, Nevermind (Rizzoli Lizard, 13 euro); il titolo è scritto con la stessa font di “Nirvana”, e se giriamo il libro, una sagoma tratteggiata solletica immediatamente il nostro immaginario. Così lavora, con successo, l’illustratore pisano, con un tratto essenziale e profondamente pop, creando tavole solo in apparenza semplici, ma in realtà piene di dettagli e di indizi e soprattutto, inserendo nelle storie quelli che chiama “cortocircuiti”, rimandi, prestiti, citazioni o, come questa volta, veri e propri cammei di personaggi provenienti da altri libri, fumetti o storie.
Intervisto l’autore durante la primissima presentazione del fumetto, biografia illustrata del frontman della band grunge punk Nirvana, morto suicida a soli 27 anni, il 4 di aprile del 1994.

Al di là della ricorrenza dei venti anni dalla morte, come nasce l’idea di un fumetto su Kurt Cobain?
TUONO PETTINATO: Sono stato grunge al liceo; ascoltavo qualsiasi band i cui componenti indossassero camicie a quadri e di flanella. Nel caso di Kurt Cobain, mi dispiaceva l’idea che la sua immagine fosse ricordata su quei tristissimi posters commemorativi, con croci e date di nascita e morte. Quindi ho aspettato la ricorrenza, che è sempre interessante per l’editore e che per l’autore rappresenta il momento più favorevole per raccontare un personaggio in modo diverso, e ho proposto il soggetto a Rizzoli Lizard.

Tuono Pettinato e le biografie. Da Garibaldi ad Alan Turing, fino ad arrivare all’icona del grunge, Kurt Cobain. Come trasformi la storia di una vita in narrazione?
T.P. La pratica di raccontare la storia della vita di personaggi storici mi accompagna da tempo. Ho cominciato con storie molto brevi: De Coubertin, Matisse, e anche un’ipotetica scopritrice dello skateboard, in età vittoriana, S. Kate Boarding. Per questo Rizzoli mi ha proposto di lavorare alla figura di Garibaldi per realizzarne la storia illustrata in occasione del centocinquantenario dell’unità d’Italia. Tutte le mie narrazioni hanno una base umoristica e con le sue gesta e la sua carica retorica, il personaggio di Garibaldi si prestava perfettamente; il mio compito divenne in quel caso quello di riportare l’eroe da museo sulla terra ferma. Nel caso di Enigma (Rizzoli Lizard, 2012), scritto con Francesca Riccioni, la vicenda umana era più intensa e sofferta, impossibile da liquidare con un umorismo farsesco; scegliemmo quindi un humour nero da fiaba macabra come cifra narrativa. In ogni caso, in un fumetto è impossibile raccontare tutta la vita di un personaggio e allora cerco dei veri e propri cortocircuiti, ovvero inserisco riferimenti culturali e faccio sí che la storia si apra su collegamenti inaspettati, e questo è forse l’aspetto più stimolante del mio lavoro.

Succede anche in Nevermind, dove scegli di rappresentare Boddah, il celebre amico immaginario di Cobain, che è anche l’ultimo destinatario dei suoi pensieri nella nota che lascia prima di togliersi la vita, con le fattezze di Hobbes, il tigrotto di Watterson, amico immaginario di Calvin.
T.P. L’amico immaginario, come dici, ha un ruolo centrale nella vita interiore e, di conseguenza, anche nella creatività di Cobain. Mi ero immaginato un’ambientazione boschiva per le foreste dei taglialegna operai di Aberdeen, la cittadina di provincia che Cobain adolescente è deciso ad abbandonare al più presto e un Kurt bambino angelico, pettinatissimo ma di una vivacità irrefrenabile. Il collegamento con Calvin e Hobbes, di Bill Watterson è stato immediato. Quando poi ho scoperto che Watterson interruppe la pubblicazione delle strisce proprio nell’aprile del 1994, quella che era una semplice corrispondenza mi è sembrata ancora più una relazione tangibile.

credits: @tuono pettinato

credits: @tuono pettinato

Questo è un personaggio, che per quanto immaginario − nelle primissime tavole del libro ne vediamo solo la sagoma tratteggiata − risulta molto funzionale quando assume il ruolo di narratore…
T.P. Esatto, in questo senso Boddah-Hobbes è divenuto funzionale per riassumere certe circostanze della vita di Cobain e mi è servito per muovermi agilmente tra flashback e flashforward: volevo che ci fosse un contrasto immediato tra la creatura angelicale del Kurt bambino e quell’eroe disperato che sarebbe divenuto, che spaccava chitarre sul palco e si gettava sulla batteria nel bel mezzo di un concerto.

Un’altra grande virtù del tuo libro questa, visto che, per quanto breve, la vita di Kurt Cobain presenta dei passaggi bruschi da stati di felicità e appagamento estremi, alla costante sensazione di inadeguatezza, sia nel pubblico che nel privato. L’infanzia gioca comunque un ruolo fondamentale nella sua crescita come artista e la narrazione vi si sofferma accuratamente.
T.P. Mi piaceva raccontare la parte meno conosciuta della vita di Cobain: la sua infanzia felice di bambino dotato di un’immaginazione straordinaria, la sua precoce inclinazione per le arti e la sua iperattività. Uno scenario che cambia drasticamente con la separazione dei genitori, che sembra gettare un’ombra di tristezza sulla vita di Kurt, un senso di disillusione dal quale non si libererà mai più. Ci sono nel fumetto dei momenti aneddotici, la registrazione di Something in the way, un paio di scene di famosi videoclip, ma in generale, ho deciso di seguire una linea personale, di stare sulla vita interiore.

Il libro si chiama Nevermind che è il titolo del secondo album dei Nirvana, quello che ne sancisce ufficialmente il successo internazionale, ma è anche un’espressione che lascia trapelare un po’ l’atteggiamento artistico di indifferenza anestetizzata di Kurt Cobain di fronte a quello che non accetta, alla realtà alla quale non si conforma.
T.P. Effettivamente è un’espressione che trasmette il senso della ribellione personale di un Kurt Cobain giovane artista incompreso in un ambiente di bruti boscaioli o di giovani atleti, soprattutto prima dell’incontro fondamentale con Buzz Osborne dei Melvins che lo inizierà alla musica punk. Una ribellione disfattista e sarcastica, cifra di tutto il suo atteggiamento artistico. Il disco Nevermind è il culmine della crescita che mi interessava raccontare; ho riassunto la fase succesiva, facendo ovviamente qualche riferimento dovuto e meritato a In Utero, perché è quella che lo conduce al declino, più tristemente nota.

credits @tuono pettinato

credits @tuono pettinato

In effetti Kurt Cobain è una delle rockstar più chiacchierate. La sua immagine è stata associata all’idea di un’intera generazione e quindi infinitamente strumentalizzata, fino a convertirsi nell’icona che paradossalmente Kurt sapeva e temeva di divenire. Una della sue ultime apparizioni in pubblico a poco più di un mese dal suo suicidio, il 23 di febbraio, è stata quella a Tunnel, la trasmissione condotta da Serena Dandini. La giornalista lo descrisse come «una persona di una sensibilità estrema, indifesa, che difficilmente riuscivi a guardare negli occhi, con uno sguardo di paura come di un cucciolo braccato dal mondo», ed è forse questa la parte di Kurt che hai scelto di raccontare. Cosa ne pensi?
T.P. Sì, per questa volta, concordo con la Dandini.

Quale verso dei Nirvana o quale loro canzone ti risuonava nelle orecchie mentre disegnavi?
Sicuramente Lithium che è un po’ la colonna sonora della storia, considerando la chiave di lettura dell’amico immaginario, con le sue parole «I’m so happy/ ’cause today Ive found my friends/ they’re in my head». È un testo che racchiude un senso di solitudine, così come la possibilità di trovare una dimensione propria in mondi altri dal nostro.


Su unastoria di Gipi

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di Paolo Rossini

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Il protagonista di unastoria (Coconino Press, 2014) è Silvano Landi, scrittore di cui in principio non sappiamo nulla, se non che gode di una certa celebrità. A riferircelo, sono gli psichiatri che lo hanno in cura ormai da due mesi. Motivo dell’internamento: episodi di schizofrenia improvvisa. Della malattia che ha colpito Landi non viene detto molto altro: sono ritratte, di tanto in tanto, le circostanze in cui tale malattia ha fatto per la prima volta la sua comparsa, oppure scorci di vita ospedaliera. Tuttavia, dato che manca un’analisi approfondita del disagio psichico, siamo portati a pensare che con unastoria Gipi non voglia occuparsi di questo tema: la sofferenza, pur essendo restituita in tutta la sua gravità, appare più come un espediente per dare avvio alla narrazione. Non che Gipi avrebbe potuto scegliere un altro inizio per la sua storia. Ciò che intendo dire, piuttosto, è che condizioni di malessere, come quelle in cui si trova Landi, sono spesso viatico di riflessioni, di prese di coscienza che ci riguardano direttamente. Il dolore ci costringe a fare i conti con noi stessi. Landi è prima di tutto uno scrittore e la sua malattia lo mette in discussione proprio in quanto tale. Per questo, a mio parere, unastoria è innanzitutto una riflessione sul mestiere di scrivere.

La prima riflessione è veicolata dal modo in cui il disagio di Landi è messo in scena: unastoria infatti si apre con una serie di immagini confuse, apparentemente prive di senso interno, che vengono ridotte all’ordine solo quando, quale pagina dopo, la figura del protagonista fa la sua comparsa in ospedale. A quel punto si capisce che quel coacervo di sensazioni è riconducibile a Landi, il quale sta rievocando le tappe salienti del suo percorso fin lì. Questa rappresentazione mette davanti all’evidenza che ci sono cose, tra le quali vi è pure il disagio mentale, cui non si può rendere giustizia se le si racconta a parole. Sia ben chiaro: la letteratura è piena di casi che potrebbero smentirmi seduta stante, ne sono consapevole. Ma il punto è che il caos sfugge al discorso. La parola è di per sé ordinatrice e, perciò, non può che mistificare ciò che invece un ordine originariamente non lo possiede. A questo aggiungeteci la bravura di Gipi, o meglio la sua empatia, che è una delle caratteristiche che domina tutta la sua narrazione. Il risultato è un avvicinamento repentino al dramma del protagonista da lasciarvi quasi senza fiato.

Ci sono cose, quindi, che possono – per dir così – difficilmente essere spiegate a parole. Ce ne sono poi altre per le quali questa possibilità è sì più agibile, ma la cui potenzialità espressiva è di sicuro inferiore a quella di un’immagine: quando si dice che un’immagine vale più di mille parole. È questo il caso della lettera che Mauro Landi, nonno di Silvano, scrive a sua moglie da una delle tante trincee che hanno diviso l’Europa nel corso della Prima Guerra Mondiale. Mauro è un avanguardista, nel vero senso della parola. In altri termini, è colui il quale è preposto ad andare incontro al nemico, così da preparare il terreno per l’avanzata delle proprie truppe. Non c’è bisogno di specificare quanto la dinamica del primo conflitto mondiale rendesse infame questo compito: gli avanguardisti erano praticamente dei morti che camminavano. Consapevole di questo, Mauro prima di lasciare la trincea per adempiere al proprio dovere di soldato, piuttosto che ricevere la benedizione dal cappellano, preferisce scrivere alla moglie quella che potrebbe essere la sua ultima lettera. Solo che, siccome il caso (solo quello) ha voluto che il passaggio fosse posticipato ancora di un giorno, Mauro sono ormai tre volte che riscrive quella lettera. Ora, si potrebbe raccontare tutto questo a parole, e lo si potrebbe fare molto meglio di come l’ho fatto io. Oppure si potrebbe mostrare quella lettera, con le relative cancellature – il che sarebbe indubbiamente più efficace (e meno prolisso) dal punto di vista comunicativo.

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Gipi gioca spesso sul confine tra graphic novel e scrittura, come quando ad esempio racconta a parole ciò che ha illustrato solo qualche pagina addietro. D’altra parte, la didascalia è parte integrante di questo genere letterario, che perciò stesso non può essere ascritto alle arti puramente figurative. C’è da notare, però, che in unastoria la presenza delle didascalie è resa il meno ingombrante possibile: Gipi fa buon uso del non detto, gioca abilmente con l’ellissi, così da lasciar parlare sopratutto le immagini. Queste, ovviamente, sono tutt’altro che mute, ma non sono neppure così assordanti. Fanno sì che il lettore possa insinuarsi negli interstizi che si creano tra di esse, lo mettono nelle condizioni di colmare tali interstizi con le sue idee e sensazioni. In una parola, allargano proporzionalmente l’ambito dell’interpretabile, rendendo così molto più attivo il ruolo di chi legge.

Ma che differenza c’è per Gipi tra l’immagine e la parola? Che cosa passa, nella sua narrazione, attraverso la scrittura e cosa attraverso il disegno? La risposta a questa domanda ce la da lui stesso. «Sono tutte parole» sbotta la moglie di Silvano in una delle loro accese discussioni. «Forse per te questo modo di stare al mondo è sufficiente. Del resto, tu non vai al mare. Tu parli del mare.» Ora, può darsi che il rimprovero che Silvano si sente muovere da sua moglie sia meramente quello di vivere da un’altra parte, di essere completamente slegato dalla realtà. Ma io in questa frase ci leggo qualcosa di più sottile, magari perché ormai inevitabilmente condizionato dalla domanda che mi sono posto. Il punto è che la parola è di necessità rielaborazione: noi siamo in grado di parlare di qualcosa solo dopo che questo qualcosa ci è accaduto, e quindi abbiamo avuto il tempo di processarlo, metabolizzarlo, trarne le dovute conseguenze. Insomma, prima della parola vi è l’esperienza, e questa, di per sé, non è discorsiva. L’esperienza, come tale, passa dagli organi di senso, ed è perciò visiva, uditiva, olfattiva e così via. Stando così le cose, la parola non è altro che una sofisticazione dell’esperienza, una sua sublimazione, un suo tradimento. L’immagine invece è capace di andare più al fondo delle cose, di scandagliarle, e di riportare in superficie il loro nucleo originario. Donde il tono intimo, confidenziale che si percepisce leggendo Gipi, ma anche altri suoi colleghi, tra cui Manuele Fior, Manu Larcenet, Davide Reviati: la loro forza è la loro umanità.


Il Sublime Simposio Del Potere

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Channel-fireball, dardi incantati da 1d6+1 e onde energetiche (della tartaruga).

Alcune riflessioni sulla transmedialità nel genere fantasy

di Vanni Santoni

dite, amici, ed entrate

dite, amici, ed entrate

[intro redazionale

Sotto il nome di Sublime Simposio Del Potere andava la mailing list che ha usato Vanni Santoni per convocare un manipolo di prescelti a parlare di fantasy il 17 gennaio 2015 a Firenze, nella bellissima libreria TodoModo. La discussione è stata ampia e interessante: per questo ho chiesto a tutti i partecipanti di provare a trascrivere il loro intervento.

I tempi sono stati epici, conformemente al tema trattato, ma gli eroi hanno vinto le loro battaglie, e siamo pronti adesso a presentarvi, ogni martedì, una diversa visione del mondo del fantasy, con l’auspicio che questo genere minore susciti ancora fiamme di passione e, soprattutto, un buon dibattito.

aye!]

Quando mi è stato chiesto di organizzare il “Sublime Simposio del Potere” – al netto della boutade ruolistica del titolo una giornata di studi sulla letteratura fantastica – avevo preparato un piccolo intervento, che poi, vista la quantità e qualità di quelli degli altri intervenuti, ho poi deciso di omettere, limitandomi a coordinare l’incontro.

La giornata era nata come alternativa a una presentazione dei due Terra ignota: lo avevo già presentato molte volte a Firenze, così con i librai della TodoModo avevamo pensato che sarebbe stato più interessante, e proficuo, aprire al fantasy in generale, partendo dall’esperienza di questi romanzi – dalla loro genesi, dal lavoro teorico alla base sia della struttura che del metatesto, dalle riflessioni intorno a ciò che significa, oggi, scrivere un fantasy in italiano, dall’ottima ricezione che stavano avendo, ricezione che veniva a dimostrare che un pubblico “colto” per questo genere esisteva, un pubblico del tutto trasversale che, pur fruendo abitualmente di contenuti cosiddetti “alti” aveva interamente superato certi vetusti pregiudizi nei confronti del “genere” e della narrativa popolare, in generale, e del fantasy in particolare.

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Se tale pregiudizio era stato superato – da questo sarebbe partito il mio intervento, che qui cerco di ricostruire per sommi capi – era, più che per l’esistenza e persistenza di un canone della letteratura fantasy, per via della penetrazione a tutto campo del genere nell’immaginario di tutti, attraverso medium per lo più differenti dal libro. Io stesso, se a un certo punto della mia vita di scrittore avevo deciso di scrivere anche del fantasy, non era perché coltivavo chissà che passione per tale genere in letteratura – amavo Tolkien, come tutti, ma non mi spingevo molto più in là – ma perché avevo passato infiniti pomeriggi a giocare a giochi di ruolo fantasy come Dungeons&Dragons; a videogiochi fantasy come Ultima V, VI, VII; a coin-op fantasy come King of Dragons; a giochi di carte fantasy come Magic: The gathering; a leggere fumetti fantasy come Il mercenario di Segrelles, prima, e Berserk di Miura, poi; a guardare e guardare quei pochi film fantasy disponibili in epoca pre-digitale, adorando i capolavori Conan il barbaro di Milius e Excalibur di Boorman, ma anche apprezzando tutta quella onesta “seconda fascia” – Ladyhawke, Willow, La storia fantastica, Labyrinth, Highlander – che era pur sempre ciò che il convento passava; senza contare poi le grandi epiche giapponesi a cartoni animati, nessuna fantasy tout-court ma spesso afferenti al genere – Ken il guerriero, I cavalieri dello zodiaco, il primo Dragon ball… – e fumetti che sfioravano il fantasy e intanto andavano costruendo dal nulla il cosiddetto “urban fantasy”, come l’insuperato Sandman di Gaiman.

Il fantasy è infatti senz’altro il genere più transmediale, e mi riferisco a qualcosa che va ben oltre il fatto che oggi Harry Potter, Il signore degli anelli o Il trono di spade sono veri e propri franchise che vanno dai libri ai film, dai videogiochi ai pupazzi, dai giochi di ruolo ai wargame al più variegato merchandising – il fatto è che il “canone fantasy”, se una tal cosa esiste, si organizza oggi intorno a una varieta di prodotti culturali, alcuni dei quali hanno impattato e definito l’estetica e le forme del fantasy come e più della letteratura. Ho citato i giochi, i fumetti, il cinema, i cartoni animati, i videogame, ma si può andare ancora oltre, mettere in campo addirittura l’illustrazione (qualcosa di analogo, ma forse anche su scala maggiore, a quello che è accaduto con il lavoro di Giger per Alien, poi saccheggiato in ogni dove, dagli zerg di Starcraft a Warhammer 40’000 a Mutant Chronicles).

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Si pensi a Frank Frazetta: padre di Conan e con esso dell’estetica epic fantasy come e più di Howard, ha definito un certo modo di guardare ai personaggi e agli scenari in cui si muovono: prima di lui, i vecchi romanzi di Conan il barbaro avevano in copertina un curioso ometto in mutande e mantello, non ipertrofico, con capelli corti e tratti  anglosassoni regolari, più parente di Flash Gordon che del cimmero che siamo abituati a conoscere. E così i grandi illustratori della TSR, Larry Elmore su tutti, i cui disegni sulle scatole di D&D guardavamo e riguardavamo. Né si tratta solo di una questione estetica. Se pensiamo, oggi, a un mago che lancia uno “spell”, è al mago di D&D che stiamo pensando; se pensiamo a uno scontro tra due guerrieri, lo immaginiamo con il livello di dettaglio e la coreografia che il cinema occidentale ha importato dall’oriente… Di fronte a tutto questo, il romanzo, con la versatilità e inclusività che si è guadagnato in epoca postmoderna, può tornare a essere punto di arrivo, più che di partenza, per simili ordini di suggestioni nell’ambito del genere fantasy, a patto di accettare di essere sì il medium più ampio, ma non necessariamente quello più rilevante.



Il Sublime Simposio Del Potere

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Il Corvo presenta: il giorno in cui il Nano Sabbiolino divenne epica

di Francesca Matteoni

dite, amici, ed entrate

dite, amici, ed entrate

[intro redazionale

Sotto il nome di Sublime Simposio Del Potere andava la mailing list che ha usato Vanni Santoni per convocare un manipolo di prescelti a parlare di fantasy il 17 gennaio 2015 a Firenze, nella bellissima libreria TodoModo. La discussione è stata ampia e interessante: per questo ho chiesto a tutti i partecipanti di provare a trascrivere il loro intervento.

I tempi sono stati epici, conformemente al tema trattato, ma gli eroi hanno vinto le loro battaglie, e siamo pronti adesso a presentarvi, ogni martedì, una diversa visione del mondo del fantasy, con l’auspicio che questo genere minore susciti ancora fiamme di passione e, soprattutto, un buon dibattito.

aye!]

Sabbie eterne

“Fumetto dark”, riportavano le edizioni italiane dei primi albi del Sandman che acquistai, come se questo dovesse attrarre chissà quale torma di fumettari con borchie, anfibi e cappotti neri. Molto più efficaci erano invece le copertine di Dave McKean, collage sfumati di disegni e fotografie, maschere rovinate, in procinto di trasformarsi dentro resti di rami, foglie, strane ossature animali. Preconizzavano il regno in cui si sarebbe di lì a poco addentrato il lettore: la terra del sonno e del sogno, con il suo Signore, dispensatore di polvere incantata. Dunque c’erano stati il minaccioso uomo della sabbia di E.T.A Hoffman; il mirabolante Olé Chiudilocchio anderseniano e soprattutto da un misconosciuto libro di fiabe della buonanotte il Nano Sabbiolino in calzamaglia a righe e berretto, con ciuco e carro pieno di sacchi di sabbia per incubi o sogni dorati, a vegliare sui miei viaggi onirici. Ma è quest’ultima evoluzione del Signore dei Sogni, creato dallo scrittore Neil Gaiman, che ha segnato e accompagnato il mio immaginario notturno dai venti anni in poi.

Romantico – alto, molto magro, vestito di buio: Sogno porta al collo un rubino, dove custodisce parte della sua essenza, ha per elmo una maschera a gas, ereditata da un altro Sandman della DC Comics e un sacchetto di sabbia incantata. Il suo aspetto è tuttavia variabile, come lui stesso afferma, quando Marco Polo gli chiede se sia sempre così pallido: “Dipende da chi mi sta guardando (“Terre Soffici” in Favole e Riflessi”)” – quale popolo, quale immaginazione.

Vorrei qui provare a parlare di tre aspetti salienti dell’avventura rocambolesca di lettrice del Sandman: il rapporto tra il sogno e i sognatori; l’interazione con altre creature soprannaturali; la ridefinizione del tempo, il tutto contestualizzato in una vaga trama così riassumibile: Oneiros, Morfeo, Signore delle Forme, Plasmatore, è il terzo fratello nella famiglia degli Eterni, entità che esistono oltre le vicissitudini dei mortali e degli dei e incarnano le caratteristiche essenziali del vivente. Ovvero: Destino, Morte, Sogno, Distruzione, Disperazione e Desiderio, Delirio (Delizia).[1] Tornato al sogno dopo quasi un secolo di prigionia ad opera di un mago che voleva catturare Morte, ritrovandosi invece per le mani il fratello minore, intraprende il suo vero viaggio dell’esperienza o dell’eroe: attraverso diverse epoche e incontri Morfeo fa ammenda degli errori commessi, diventa sensibile alle vicende dell’animo umano, mette ordine nel regno, che è il regno di tutto il sognato e il sognabile e quindi è la storia di tutte le storie. Da uno stato di coercizione passa al potere che si muta in atto espiatorio e trasformazione di sé e si consegna all’epica. Dunque chiudiamo gli occhi: cominciamo.

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Compagni di sogni

Il viaggio mitico o fiabesco che sia è sempre un viaggio di rinascita, acquisizione di un’identità che renda all’eroe il suo ruolo nella società o, come in questo caso, nell’universo. Ma se questa peregrinazione si svolge nelle terre del sogno le cose si complicano – divino e umano si mescolano e i significati si fanno evanescenti. Perché sappiamo che non tutto ha un senso nel sogno o almeno non è un senso manifesto. A volte semplicemente nei sogni prendono voce le cose rimosse – una strada marginale, un pensiero nato da svegli e mai portato a termine.

Così nel regno onirico incontriamo luoghi stranianti e familiari che a loro modo completano o smantellano l’altra vita della veglia. C’è una biblioteca dove Lucien, il bibliotecario, cataloga e conosce a memoria tutti i libri scritti in sogno; c’è una Casa del Mistero e una Casa dei Segreti,[2] dove dimorano i biblici Caino e Abele uniti da pulsioni contrastanti, quali l’affetto fraterno e l’atto fratricida; vi sono terre che emergono dalla volontà di chi sogna, ma che in tutto metamorfici possono diventare a loro volta corpi e individui, che intraprendono il percorso inverso, andando fuori dal sogno verso il quotidiano degli umani. È il caso del Paradiso dei Marinai, posto ameno e confortevole, che prende le sembianze di Gilbert, un uomo di mezza età, grassoccio e gioviale, in giro per il mondo. A quest’ultimo, interrogato da Morfeo riguardo la sua fuga dal Regno, è affidata una verità sul legame tra il sogno e gli umani:

«Me ne sono andato perché ero curioso. E perché ero stanco. La vita umana possiede una sostanza che non avevo mai nemmeno sognato nel Sogno, Signore. Le piccole vittorie, le insignificanti sconfitte. Avevo le mie ragioni (Casa di Bambola)».

Il Sogno è un luogo imperfetto, non vi si può sostare troppo a lungo, non abbiamo abbastanza tempo o spazio per conoscere i significati delle sue visioni, possiamo tutt’al più trarne presagi e bizzarri amuleti. Ma questo dipende in larga misura dal fatto che sono le imperfezioni e le volubilità dei mortali a fare dei sogni ciò che sono. La natura di Morfeo non può che essere inquieta: nemmeno quando mostra indifferenza c’è un vero distacco dall’umano, perché ciò che lui dona, che plasma dalle sabbie, è intriso della precarietà del vivente. La natura dei sognatori è varia – sognano gli umani, gli animali (tra cui spiccano i gatti, ma anche le tartarughe), le divinità, spesso decadute, costrette all’incognito e a una condizione di perpetua nostalgia per un’età dell’oro vaga quanto irripetibile. Si addormentano tutti e la forza della visione è pari al sentimento di imminente risveglio, di ritorno a un io che è quasi un estraneo con la sua vita emersa, esposta alla società, quasi un residuo pallido di quanto esperito in sogno.

Nel panorama densissimo di individui, culture, vicende personali spiccano le figure femminili, che sembrano capaci più di altri di influenzare il Signore dei Sogni. Che siano amanti o amiche o perfino antagoniste, sono loro che destabilizzano il Sogno, ma al tempo stesso lo ricreano con il loro proprio mistero. Perché potere e immaginazione risiedono in chiunque sia in grado di sognare, abitando altrove, credendo intensamente a quella materia ambigua e stupefacente. Un breve elenco di questi personaggi potrebbe così comporsi: una ragazza che cade addormentata nei momenti più imprevisti, scatenando vortici devastanti nel mondo onirico e che è l’ignara nipoti di Desiderio, il più bello e infido degli Eterni; un gruppo di vicine d’appartamento alle prese con riti lunari e sanguinosi per camminare nel sogno verso qualcosa di letale che nell’infanzia vi si è fatto crescere; una strega dei tempi antichi, ultima della sua stirpe; una serie di divinità, demoni, creature ultramondane che sono sia frequentatrici del sogno che guardiane, dispensatrici della sorte, dei suoi capricci come della sua oscura giustizia, cui nemmeno Sogno può sottrarsi.

Fate e Parche

Un legame particolare è quello che Sogno ha con il Regno delle Fate, governato da Titania e dal suo sposo Oberon, come Shakespeare insegna. È proprio in un contesto shakespeariano che incontriamo la stirpe fatata per la prima volta. Alter ego umano di Sogno, il bardo inglese ottiene il dono del talento in cambio di due opere da dedicare rispettivamente alle fate (Sogno di una notte di mezza estate) e a Morfeo (La tempesta). Dono che è anche una maledizione: la condanna di Prospero, capace di far nascere mondi e tuttavia relegato dal suo stesso genio alla solitudine dello spirito. Tuttavia le creature raccontate da Shakespeare quali esseri umorali e dispettosi, riacquistano nel Sandman il loro portato folklorico di inquietudine, passionalità e incontrollabilità, a partire da Puck, folletto feroce e senza traccia di coscienza, capace di prendere gusto a qualsiasi misfatto al di là delle suo conseguenze.

Per loro natura le fate sono le più vicine a quel particolare ibrido di arcaica nostalgia, humour nero, presagio che domina tutto il sogno. Dalla Terra del Crepuscolo, della luce obliqua che crea miraggi e languore, all’infinito Castello del Sogno, tanto imprevedibile e vasto eppure racchiuso in un pugno di sabbia, il passo è breve. In entrambi i luoghi il viaggiatore è costantemente avvertito di non lasciare il Sentiero: un passo via dal tracciato e si diventa preda dei terribili scherzi dei folletti come dei mostri sepolti nella propria coscienza.

«Noi del Reame Fatato siamo di magia selvaggia. Non siamo creature di incantesimi e grimori. Noi siamo incantesimi e siamo scritti nei grimori», afferma Cluracan ambasciatore di Titania (La locanda alla fine dei mondi). Indomabili ed effimeri, sfuggenti a logiche umane o divine, fate e sogni ingarbugliano le vie, domandano soprattutto di aver fede nell’incontrollabile e di dubitare sempre dell’apparenza: nessun essere fatato si mostra per quello che è – la corte di Titania è bella e leggiadra, ma tolto il glamour è un popolo malinconico, smagrito, con la pelle verde, occhi sfuggenti e sproporzionate orecchie a punta. Ugualmente dei sogni ci rimane l’impressione di aver viaggiato in luoghi familiari e meravigliosi, che “qualcuno” dentro noi – una forma del nostro passato, un io fittizio -, conosce nel profondo, ma ci resta anche il sapore amaro di ciò che è irripetibile e illusorio.

Fate, fatato, fatale, Fato: il gioco allitterativo ci conduce dritto dritto alla triade femminile per eccellenza: trama, ordito e forbice delle vite. Ora strampalate sorelle dedite al rito del tè pomeridiano con biscotti della fortuna o topi crudi, a seconda dei gusti, ora invisibili e temibili vendicatrici di torti familiari, incontriamo Lachesi, Cloto, Atropo del mito greto nel lungo capitolo finale della saga, Le Eumenidi (ovvero le benevole, eufemismo che nasconde la furia), dove mettono in atto la fine di Sogno. Rappresentano un aspetto attivo e quotidiano, di ciò che sono Destino e Morte. In fondo alle scale di uno scantinato, dentro lo sgabuzzino delle scope, si rivelano dimostrando che l’imprevisto, il comunemente improbabile, il soprannaturale si agitano ovunque nel mondo della veglia, ma soprattutto in quei luoghi desolati cari a Swedenborg e a Yeats, siano essi naturali, urbani o domestici – colline, vicoli, angoli della casa. Hanno la consistenza di ombre resistenti e imperscrutabili. Leggiamo questo dialogo tra Atropo e Lachesi riguardo il destino:

Non è mai come lo vogliono, e se noi diamo loro ciò che credevano di volere restano ancora più insoddisfatti. ‘Non credevo sarebbe venuto così’, ‘Lo volevo come quello che avevo prima’… Non so perché ce ne preoccupiamo.

Ce ne preoccupiamo perché non abbiamo scelta. Perché è quello che siamo, sotto queste spoglie.

Quale altro sembiante in quale altra realtà parallela, possano assumere non ci è detto: l’intuizione e gli infiniti ribaltamenti del vero sono le uniche tracce che queste entità così umane e così aliene ci lasciano. Del resto chiunque intraprenda la lettura del Sandman dovrà accantonare l’idea di una trama definita in chiari antagonisti, aiutanti magici, riuscita finale; dovrà invece accettare che alcuni dei “fatti” restino un’eco misteriosa, epifanica per alcuni e del tutto irrelata per altri; che sogno, sognatore e sognato – ovvero i tre elementi chiave delle avventure – sono insieme luogo e tempo, sviluppo immaginario e vicenda concreta. Chi tiene un quaderno dei sogni sa che questi pezzi di mosaici diversi, il cui soggetto sfugge all’immediato riconoscimento, acquisiscono forza medianica una volta raccolti, formano un unico grande enigma da decifrare – e il tempo per farlo sarà tutta una vita. O, rovesciando la clessidra, tutta una morte da compiersi.

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Il tempo di una vita

Eccoci all’ultima chiave, non risolutiva, del Sogno: il tempo, il confronto della morte con l’eterno, tra la memoria, quale residuo e sorgente, e la capacità di escogitare nuovi modi di stare al mondo.

Gli Eterni sono tutti manifestazioni del tempo, inteso come la dimensione più intima delle esperienze e non come il loro trascorrere: Delirio che fu Delizia è la frattura, talvolta insanabile, tra le illusioni della prima giovinezza, sia di un singolo che dell’intero genere umano, e il saccheggio del divenire parte della società, dell’evolversi al conforme, all’accettabile; Disperazione e Desiderio sono le due forze che sprofondano nell’ossessione, nel tempo irrespirabile di chi vaga solo in se stesso, straniero al più vasto cronotopo di cui siamo solo un frammento. Ma certo Desiderio è anche l’incanto dell’occhio, la fragilità del cuore, l’azzardo che smuove i destini. Distruzione esplica la ciclicità delle epoche, il crollare dell’una nell’altra e ha, malgrado il nome, il piglio dell’ottimista, di chi è in grado di guardare le cose da fuori senza sentirsi sempre il primo attore. Destino, il più opposto a Desiderio, è l’ineludibilità dei fenomeni fisici, che si scrivono nel suo libro e dentro i suoi occhi ciechi; Sogno è la sapienza segreta che non vi è un solo tempo. Che perfino i vivi e i morti non sono separati, come non lo sono gli spettri dai corpi, le fantasie dai calcoli, le notti dai giorni. E poi c’è Morte che è semplicemente se stessa. A lei viene spesso dato il compito di consolatrice di Morfeo, quale saggia e gentile darkettona che giunge in un battito d’ali a consegnare le esistenze al loro ultimo significato.

Accanto agli Eterni c’è un’etica tutta particolare, intrinseca al tempo, che Morfeo imparerà a sostituire alla legge statica di responsabilità verso il suo regno: il cambiamento e ciò che comporta. Cambiare è guardare da un’altra prospettiva la sostanza in cui siamo immersi, sospesa tra un morire, che prima o poi arriverà, e un nascere di cui siamo già dimentichi. Nel Sandman cambiare o comporta una riformulazione del concetto di mortalità. Gaiman la illustra nel volume Vite brevi, e vite brevi sono tutte le esistenze al di là della loro durata, anche se si tratta a volte di individui che ricordano le tigri dai denti a sciabola, o di pochissimi altri che erano vivi prima che la terra acquisisse il suo stato solido. Perché non muoiono come gli altri? E perché la brevità quale beffarda, paradossale qualificazione? Ognuno, spiega Morte, ha esattamente il tempo che deve avere: una vita intera. E per quanto sembri lunga il congedo è sempre una strana sorpresa.

Due esistenze lunghissime, delle quali una sarà infine interrotta, si configurano quali poli opposti del lungo apprendistato di Sogno, del suo progressivo umanizzarsi, farsi compassionevole oltre che immaginifico. Il primo è un comune mortale, Hob Gadling, che Sogno e Morte conoscono nel 1389 in una taverna londinese. Lo ascoltano mentre spiega che morire è solo un’abitudine e come ogni abitudine può essere dismessa. Sogno, divertito, chiede a Morte di assecondarlo: Hob morirà solo quando lo vorrà. Da allora, ogni cento anni Sogno e Hob, Bob o Robert che sia, si danno appuntamento in quello stesso luogo. L’uomo attraversa fasi alterne, dal successo e la ricchezza alla povertà e la rovina eppure ad ogni incontro la sua voglia di vivere non viene meno. È forse questo inesauribile entusiasmo che gli permette di vedere a fondo nell’anima di Morfeo: quando questi si ripresenta nel 1889 Gadling lo scopre, dicendogli che non è affatto la curiosità per le sue avventure a portarlo lì, ma il bisogno di un amico. Sogno è cambiato. Le tribolazioni umane non gli sono più indifferenti, la solitudine necessaria del suo ruolo si è incrinata come uno specchio che non dà più una sola immagine, ma una miriade di riflessi, spezzati e storti che una volta erano l’uno e ora sono molte ferite, strane possibilità di sviluppo o smarrimento. Qualcuno dirà che lo specchio si è rotto. Altri che la sua luce si moltiplica all’infinito. Permette di vedere attraverso la consapevolezza del proprio punto fragile l’esistenza dell’altro.

La seconda vita breve tocca Morfeo da vicino: si tratta del figlio, nient’altro che l’oracolo Orfeo, la cui testa, viva è quanto resta dello smembramento effettuato dalla Furie nell’epoca del mito. Per orgoglio e ira, ferito dall’ostinazione del figlio a voler inseguire l’ombra di Euridice nell’Ade, Morfeo gli aveva negato la morte: ora torna nell’isola greca dove la testa è custodita, per compiere un gesto di pietà. I secoli trascorsi hanno mutato l’anima del Sogno, e il sangue di Orfeo gli cola dalle braccia trasformandosi in semplici e indolori fiori rossi che cadono a terra. Compassione e insieme delitto familiare, è questo a scatenare le Eumenidi e a far morire il Sogno, nella forma in cui lo conosciamo. La vita non è la sua lunghezza, ma ciò che ne facciamo, la volontà che impieghiamo per apprezzare la trama delle Parche. Per questo l’eternità è un dono per Gadling, un martirio per Orfeo. Mentre Sogno accetta di finire, si consegna a un nuovo, più docile Signore dei Sogni, albino e vestito di bianco laddove il nostro eroe era scuro e notturno. Un sé diverso, se non migliore. Dopo aver sognato l’universo ed esserlo stato si può sparire in qualcosa d’altro, liberi da colpe o doveri: sognarsi, forse, senza pensiero dentro la fine.

Dalla locanda

Ho scoperto e letto il Sandman durante uno dei periodi più difficili della mia vita a conclusione della mia adolescenza. Mentre in fumetteria acquistavo prima i fumetti singoli, poi i volumi, i miei cari e miei coetanei si uccidevano o morivano in incidenti; i miei amori erano tristi, contrastati, dannati, ma senza alcun romanticismo; osservavo l’abiezione, l’abbrutimento delle tossicodipendenze, la paura o vigliaccheria della maggioranza in cui forse pure io ero inclusa; esperivo lo stigma di una strana diversità che pure rivendicavo con orgoglio. Poi ho accettato che bisogna accogliere i cambiamenti, perfino quelli brutali, se non si vuole tradire se stessi. In tutto questo, viaggiando per l’Europa, rifugiandomi nella soffitta della mia vecchia casa, le storie del Sandman sono state davvero una luce di speranza. Nonostante tutto avevo ancora i sogni. Nei sogni niente era mai perduto.

Le cose non devono essere avvenute realmente per essere vere. Le storie e i sogni sono verità rivestite d’ombra che sopravvivranno quando i nudi fatti saranno polvere, cenere, oblio (“Sogno di una notte di mezza estate” in Le terre del sogno).

Quindi compongo queste sabbie mobili di parole dalla locanda alla fine dei mondi. È qui che creature provenienti da ere e reami diversi arrivano per caso, colti da strani fenomeni meteorologici, come quella volta che ci fu un’anomala tempesta di neve, conseguenza dei funerali del Sogno. Mentre scrivo, nelle altre stanze vegliano e raccontano storie. Sono storie banali, esagerate, dolorose, felici, zuccherose, comiche, sboccate, enigmatiche. Ad ogni racconto gli ospiti si avvicinano l’uno all’altro, toccano la pura magia delle cose quando smettiamo di guardarle per vederle. Quando ci fermiamo e ascoltiamo tutti i mondi avverabili dentro di noi. Diveniamo il Sogno. Che è solo l’altra strada nel bosco, l’altra faccia del Reale – quello splendere segreto prima che si levi il vento a soffiarci la sabbia via dall’occhio.


[1] Nell’originale inglese la parentela viene esplicata dalla prima lettera dei loro nomi, la “D” del divino e del demoniaco: Destiny, Death, Dream, Destruction i gemelli Despair e Desire, Delirium che fu Delice.

[2] Che ritroviamo in The Dreaming, altra serie a fumetti nata da una costola del Sandman.


#Strega2015 | Zerocalcare, Dimentica il mio nome

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[Quattro anni fa la redazione di questo blog si lanciò nell’impresa di recensire tutta la dozzina dei candidati al premio Strega, partendo da queste premesse e arrivando a queste conclusioni.
L’anno scorso abbiamo recensito questi libri.
Quest’anno, con una visione meno compatta ma con il medesimo interesse verso le storie e i libri, ci siamo dati lo stesso obiettivo. La cinquina è già stata scelta, ma ci è sembrato più coerente leggere tutti e dodici i romanzi arrivati al primo importante passaggio del Premio. Anche questa volta, come nel 2011, non cercheremo di trarre conclusioni definitive. Una riflessione verrà, se non emergerà automaticamente, in seguito.
Qui trovate tutte le recensioni precedenti.]

di Laura Timoteo

Come quasi tutte le opere di Zerocalcare, anche Dimentica il mio nome racconta una vicenda in buona parte autobiografica.
L’alter ego dell’autore stavolta è alle prese con un mistero legato alla propria storia familiare. La morte della nonna Mamie scoperchia un buco di due decenni, rattoppato nel tempo solo con le mezze frasi ascoltate di striscio, l’immaginazione e l’aiuto della tv. Il nostro protagonista non aveva mai osato chiedere, paralizzato dal terrore di scoprire qualcosa di troppo doloroso e inaccettabile (come ad esempio che suo nonno potesse essere stato amico dei nazisti). Ma poi… «Ai funerali si incontra gente strana. Di cui non capisci bene i legami col defunto. Finestre sulle zone d’ombra della vita di chi hai amato. O estranei approdati per caso?». Chi sono queste persone? E perché date e nomi non tornano?

Trascinato dagli eventi e dalla consapevolezza di dover fare finalmente una cosa da adulti, «portare a termine una missione» (recuperare l’anello a cui la nonna teneva molto), Zero, con il grillo parlante Armadillo e la fida spalla Secco, riesce a poco a poco a colmare le lacune. Dipanando l’intricata matassa del passato di una nonnina a modo, con la casa piena di cioccolatini e souvenir da tutto il mondo: l’infanzia bucolica in Provenza, l’anacronistica «educazione siberiana» impartitele da nobili russi in esilio a Nizza, la grande love story, e tutte le rocambolesche avventure che dal villino francese col maggiordomo la portarono a vivere a Rebibbia, nell’appartamento «in una striscia di cemento senza manco la monnezza differenziata».

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Chi già conosce Zerocalcare ritrova in questo libro molti elementi familiari. A cominciare dai personaggi. Il protagonista è, come sempre, l’alter ego dell’autore: un trentenne indolente e abitudinario; che mangia plumcake e panini del Mac; si vergogna di mostrare le proprie paure, prova repulsione verso il dolore, cerca sempre di «girare al largo dall’odore della vergogna o dell’imbarazzo»; si sente perennemente inadeguato e non all’altezza. E infatti fallisce continuamente, ma spesso solo per pigrizia o perché si rapporta a improbabili modelli derivati da cinema e tv (che richiedono la posa plastica al momento opportuno, le frasi rassicuranti sussurrate al parente in punto di morte, lo sguardo penetrante che vale più di mille parole…). Prova il perenne bisogno di integrarsi, sentirsi parte di un gruppo, come quando da bambino mente sul nome della nonna (simile in modo imbarazzante a quello del ragionier Fantozzi), insiste per avere le scarpe della marca giusta, rifiuta le lezioni di piano («Tutti imparano a scoreggiare con le ascelle e io devo imparare il pianoforte?»). Preferisce delegare e (nel rispetto dei dettami dell’antica «sapienza bambocciona tipica di una società dal welfare lacunoso») accollare tutte le cose troppo grandi per lui, rotte, o di cui si è stufato al «reparto terapia intensiva delle cose di sua responsabilità»: la casa della madre. Dove la sua cameretta, in tempi di crisi e precariato, è bene resti un reliquiario sacro, inviolabile e immutabile («Questa è casa mia! Per sempre! Se ’sta cazzata dei fumetti va male io torno a vivere qua, che ti credi??? E dev’essere tutto al suo posto!»). Un eterno ragazzino che a poco a poco si fa uomo imparando la lezione: non giudicare le persone dal nome o dalla professione; non guardare le cose da un’unica prospettiva; accollare sì ma non troppo, perché su larga scala la «sapienza bambocciona» genera mostri come l’effetto Pisolone (Giochi Preziosi, ndr), e a cosa non rinunceremmo in cambio di un abbraccio che ci faccia sentire coccolati, comodi, al sicuro e meno soli?

Il compagno di mille avventure è Secco: l’amico con la passione per il gioco d’azzardo (specie se online), gli scontri e le bombe carta; che non si stupisce nemmeno se una volpe entra in chiesa per assistere a un funerale, perché tanto su internet e in tv ha già visto di tutto («Cane roscio – già visto in un film Disney, dotato di arco e frecce. Sicuro più spettacolare. Questo sta seduto e basta. So’ boni tutti»).

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Non mancano poi le incursioni dei vari personaggi pescati dalla sottocultura pop degli anni Ottanta e Novanta, e proliferano i riferimenti a cartoni animati giapponesi, videogiochi, film di genere, serie tv, oggetti di marca eletti a elemento aggregante, emblema, simbolo di qualcos’altro di più profondo, qualcosa in cui noi nati negli anni Ottanta («Quell’inferno in cui siamo cresciuti. L’epoca buia della civiltà. Il Basso Medioevo della modernità.») possiamo riconoscerci in quanto spettatori e consumatori. È questa, infatti, la strada (consapevolmente o inconsapevolmente?) prediletta da Zerocalcare per cercare l’identificazione e l’empatia del lettore: rivendicare l’appartenenza a uno stesso gruppo sulla base dell’allineamento verso gli stessi modelli di consumo.

Anche il linguaggio di Zerocalcare è quello di sempre: colloquiale, giovanilistico, romanesco, post-dialettale. E anche gli schemi narrativi sono grossomodo gli stessi. Penso in particolare all’abitudine dell’autore di inserire, a scadenze regolari, degli inserti comici (battutine en passant, sketch o vere e proprie digressioni) talvolta riusciti, talaltra tristemente banali, prevedibili, stupidotti o persino triviali. La cui funzione è introdurre delle scenette quotidiane di vita vissuta in cui tutti possiamo riconoscerci, e/o (più semplicemente) stemperare la tensione.

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Eppure, al di là degli infiniti cliché (menzione d’onore per l’immancabile citazione dei Clash), Dimentica il mio nome contiene diversi elementi di novità. Ed è qui che risiedono gli aspetti più interessanti dell’opera. Il romanzo è diviso in capitoletti (Zerocalcare è sicuramente più a suo agio con le forme brevi), ma ha una struttura più compatta e coesa rispetto ad altri libri dell’autore. I continui salti temporali, gli sconfinamenti nella Nizza degli anni Venti o nel mondo favolistico-allegorico popolato dagli spaventosi fantasmi del passato e dalle volpi (che dopo aver girato il mondo a volte finiscono dentro la gabbia di uno zoo), arricchiscono il romanzo, talvolta persino donando un senso e significati nuovi ai sopracitati cliché (è il caso di Rebibbia, il quartiere «che vive intorno al più grosso luogo di coercizione di tutta Europa»).

L’impressione generale è quindi quella di un romanzo sviluppato intorno a qualche buona idea e un nucleo narrativo forte (l’affascinante vita della nonna del protagonista), e però ancora troppo imbrigliato nelle solite formule care all’autore. A furia di stemperare, la storia perde mordente e incisività, rischiando di ridursi al solito romanzo di formazione, tra il serio e il faceto (con tutti gli ammiccamenti del caso), che ci si aspettava da Zerocalcare; con un finalone catartico a suon di mazzate e scrack e sbom e stump e sput che non è proprio il massimo dell’originalità.

Dimentica il mio nome è il quinto libro di Zerocalcare, edito (come tutti i precedenti) da Bao Publishing. È il secondo graphic novel mai candidato al premio Strega, dopo unastoria di Gipi (presentato l’anno scorso da Nicola Lagioia e Sandro Veronesi), e conferma quindi l’interesse per i romanzi a fumetti da parte del più famoso premio dedicato ai «libri di narrativa scritti in italiano», che con la candidatura di Zerocalcare (da parte di Igiaba Scego e Daria Bignardi) apre anche a un tipo di fumetto meno autoriale e più vicino a quello seriale e popolare. Tuttavia né Gipi (2014) né Zerocalcare (2015) riescono a entrare in cinquina.

Detto questo, Zerocalcare resta nell’ambiente fumettistico italiano l’uomo dei record. In meno di due anni, con i suoi primi quattro libri ha venduto complessivamente oltre duecentomila copie. Dimentica il mio nome è stato il primo graphic novel eletto libro dell’anno da Fahrenheit, il programma radiofonico in onda su Rai Radio 3; a due mesi dall’uscita era già il fumetto più acquistato del 2014 e poco dopo aveva raggiunto la terza ristampa e le centomila copie vendute.
Un successo che evidentemente non può passare inosservato.


Un pianeta attorno a cui ruotare. Intervista a Manuele Fior

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di Sara Marzullo

Manuele-Fior

Sulla copertina di L’età della febbre (minimum fax, 2015), l’antologia under 40 a cura di Christian Raimo e Alessandro Gazoia, c’è un uomo fermo da qualche parte, di fronte a un paesaggio deserto: è il protagonista di I giorni della merla, la storia a fumetti di Manuele Fior.
Autore di graphic novel come La signorina Else (Coconino Press, 2009), Cinquemila km al secondo (Coconino Press, 2010, vincitore dell’Oscar del fumetto ad Angouleme 2011) e L’Intervista (Coconino Press, 2013), Manuele Fior è uno dei più apprezzati fumettisti italiani. Lo scorso novembre è stato protagonista di una mostra al MAMbo di Bologna, nell’ambito del festival BilBOlbul, sulle forme di ispirazione de L’Intervista: in uno dei pannelli, scriveva, a proposito della scelta di ambientare la storia in una Udine del 2048:

Mi piaceva l’idea di un’Italia in cui la gente ritorna. Ritorna a delle basi tutte sgangherate – ci sono stati dei moti – però anche da questa terra bruciata si riparte. Io credo alla pazzia di Dora, a questa pazzia esagerata. Puoi ritornare a costruire, in modo anche folle.

Lo abbiamo incontrato a Parigi, dove vive, per parlare del suo ultimo lavoro, di fantascienza e di come si può disegnare il futuro.

[Sara Marzullo: SM; Manuele Fior: MF]

SM: I giorni della merla è il titolo della tua storia per l’antologia minimum fax L’età della febbre. Nella premessa avverti che gli eventi raccontati seguono temporalmente quelli di L’Intervista. Decidi quindi di lavorare, pur nell’ambito di un lavoro collettivo, su una storia che hai già indagato: mi chiedo se è un progetto a cui avevi già pensato all’epoca dell’uscita di L’Intervista, se questa scelta, cioè, non scaturisca dalla natura del personaggio di Dora?

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MF: Quando Christian Raimo mi ha chiesto di fare questa storia breve, io avevo già pensato di voler ampliare l’universo di L’Intervista, soprattutto il personaggio di Dora. Quindi, quando mi ha dato carta bianca, ho pensato che mi sarebbe piaciuto lavorare ancora su quel mondo lì. Poi è chiaro che in un’antologia devi fare qualcosa di minimamente autoconcluso, in modo che possa essere letto anche da chi non conosce quello che viene prima: ho provato il più possibile a dare un’esperienza di lettura che funzionasse anche per chi non conosce il mio lavoro di fumettista, ma non so se ci sono riuscito a pieno. Il mio interesse è quello di ruotare attorno a questo pianeta e, quindi, vorrei sfruttare ogni occasione che mi è data per aggiungere dei mattoncini a questo universo.

SM: La storia inizia con «La domanda che a questo punto uno deve porsi è: Perché proprio io?» ma non è certo la presenza di un fumettista all’interno dell’antologia che mi pare aliena. Mi pare  interessante, invece, vedere come il tuo lavoro si colleghi a quello degli altri compagni di antologia. C’è Alta Marea di Emmanuela Carbè che ambienta il suo racconto in un futuro prossimo, e così è in L’intervista; c’è Paolo Sortino che scrive una storia di distopia in Abruzzo, mentre tu scegli Udine – la provincia come luogo del possibile, insomma. C’è chi, come te, vive fuori dall’Italia e la racconta da un punto di vista che è interno ed esterno allo stesso tempo. Un’antologia non è una scuola, un’antologia non è una corrente, eppure ci sono dei punti di contatto tra voi.

MF: Dal momento che non ci siamo messi d’accordo, non so se, a posteriori, leggendo una serie di racconti che sono stati messi all’interno di un contenitore, tu sia quasi spontaneamente spinto a trovare delle linee comuni, perché, almeno dall’esperienza che ne ho io, sono cose molto diverse l’una dall’altra. Per me, guardare l’Italia in maniera distopica o di sfasamento temporale era una necessità per buttare lo sguardo al di là di un certo muro, oltre un’impasse che vedo adesso; non riuscendo a trovare delle vie di uscita reali, mi sono servito di questa piccola rivoluzione che colloco attorno al 2020-30, per figurare quello che può succedere dopo. Ma il mio lavoro parte da considerazioni molto intime: ecco, una cosa che trovo vera è che c’è uno sguardo sul mondo esterno che parte prima dall’interno e mettendo a fuoco molto l’interno riesce a ottenere una specie di eco all’esterno e questo mi pare è quello che facciano tutti gli autori che ho letto. Se invece prendi una stessa antologia magari negli anni ’70-’80, avresti avuto uno sguardo diverso, che dall’esterno cerca di dare una legge. Questo cambiamento lo vedi anche altri campi, prendi un certo tipo di musica, di narrativa e cantautorato: parti da quello che erano i Pink  Floyd negli anni ’70 o ’80, che guardano veramente alla società, la accusano, e passi a gruppi come i Radiohead che tutto d’un colpo sono così raccolti, quasi chiusi nella loro stanzetta a cercar di far crescere questa grandissima sensibilità interiore; e mi sembra che questo sia un tratto generale di tutti quelli che raccontano delle storie adesso.

SM: E c’è la frase con cui concludi I giorni della merla: «Le cose stanno cominciando a correre sul serio», che ha la stessa vibrazione di quando il tuo corpo reagisce a un virus con la febbre. È questa forse la caratteristica di quello che si scrive oggi? Non una proiezione nel futuro, ma la sensazione che, per dirla con le parole di Jennifer Egan «Certo, sta per finire tutto, ma non ancora».

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MF: Qualche settimana fa leggevo un libro di David Graeber, Debito. I primi 5000 anni, un libro di economia sulla storia del debito; Graeber, che ha fatto parte dei movimenti no global negli anni ’90, dice una cosa molto interessante: che il capitalismo, con segni di crisi ancor più evidenti dal 2008, sta per finire per come lo conosciamo e nel finire, una sua parte congenita, impedisce di pensare a chi ci sta dentro a quello che c’è oltre. Cioè, tra gli effetti collaterali del capitalismo c’è quello di rattrappire l’immaginazione e non poter pensare un sistema alternativo al capitalismo, per cui quello che cerco di fare io in queste storie è riappropriarmi di un certo immaginario di cui sento che il mondo della cultura si è privato, come se ci fosse un po’ di paura a usare la fantasia, a immaginarsi scenari nuovi, un tipo di fantascienza nuova. È per questo che ho messo quella frase alla fine, perché mi piacerebbe proprio immaginare una storia in cui a un certo punto si passa a un’altra fase, con un sacco di problemi, magari, ma anche di cose divertenti, belle, nuove – una nuova tappa o giovinezza, in cui il futuro non è sempre un buco nero. Nella condizione immaginativa di adesso, mi sembra ci sia una sorta di incancrenimento della tecnologia e se immaginiamo un contatto con gli alieni, lo scriviamo sempre come l’ultimo giorno dell’umanità, mai niente di un po’ più stimolante.

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SM: Voglio tornare sul punto dell’ambientazione: scegli il futuro, ma lo fai ambientandolo in una scenografia che deve più a Antonioni e all’architettura del movimento moderno che a quelle che oggi dovrebbero essere le architetture futuribili. Ma, come hai detto tu nella mostra di Bologna, prima il tempo era una freccia verso il futuro, poi tutto ha iniziato a crollare e, se ci pensi, anche in Her di Spike Jonze i vestiti del futuro sembrano usciti da un film anni cinquanta. Il futuribile sembra sia già esaurito, o forse la sua idea sta solo cambiando forma: Google, Apple, Facebook si stanno costruendo dei quartier generali che sono specie di città-azienda, che a me non ricordano niente di diverso dalla Lanark di Owen o dalle colonie dalla Krupp dell’Ottocento, solo a forma di astronave o con membrane che le fanno sembrare vive. Frank Gehry disegna il quartier generale di Facebook, ed è una specie di bosco.

MF: Ci sono cambiamenti di immaginario, sempre, come insegna la storia della cultura: la visione del futuro negli anni ’50 lo voleva bianco, mai sbeccato, con le forme pulite del movimento moderno, come le forme di Le Corbusier, che dovevano essere uno specchio di questa nuova umanità che lavora di meno, perché c’è la macchina. A questo immaginario si è sostituito, attraverso fumettisti, registi e artisti vari, un futuro in cui tutto è sgretolato, come succede da Moebius in poi – e lo cito non perché sia un fumettista, ma perché tra i primi a concepire un futuro in cui passato e futuro coesistono, in cui la rovina convive con la forma di cristallo, ma tutto ha delle crepe, tutto è sempre sbeccato. Ridley Scott lo ha ripreso, se pensi al primo Alien: lì non c’è niente che non sia polveroso e la tecnologia vecchia coabita con quella nuova – questo tipo di immaginario è andato avanti fino a quello che conosciamo adesso. Nel cinema, non si riesce a immaginare una tecnologia che sia più avanzata di quella esistente: può essere leggermente diversa, ma è quella che abbiamo già. Tanto che certe applicazioni dell’Iphone mi paiono molto più pazzesche di quello che vedo nei film.

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SM: E poi forse, quando inserisci la tecnologia, i device nei film, finisce che rendi il film già datato, perché lo consegni a un momento storico preciso: alla fine per quanto nuovi ci sembrino oggi i telefoni o le applicazioni, il loro sviluppo è talmente veloce da renderli subito obsoleti.

MF: Questo è il problema: l’immaginario moderno degli anni ’50 è molto più difficilmente databile, ha di fatto un’inerzia maggiore nel tempo. È vero che il film che citavi, Her, sposta il tipo di immaginario un po’ più avanti, anche se in realtà un assistente come Samantha [ne scrive in questo ottimo pezzo Fabio Deotto su Rivista Studio, n.d.I.] non è lontanissimo dalle attuali possibilità tecnologiche.

SM: Però vedi, Samantha è quasi solo una voce, c’è solo quella sorta di leggerissimo smartphone. E, per tornare a L’Intervista, non a caso, tu utilizzi le luci come contatto tra l’altro e Dora.

MF: L’affrancarsi della materia penso che sia una direzione in cui stanno andando le cose: ci si libera dall’hardware, anche se poi c’è ed è solo nascosto. Her, poi, mi ha proprio turbato: pensa al picnic con l’altra coppia in cui lei è presente solo come spirito: il film tiene la parte immateriale dell’innamoramento, quella che è solo privata, sua. Ma ecco, quello che mi interessa adesso è rappresentare il futuro in un’altra maniera, bypassando la tecnologia: gli anni ’50 facevano così. Gli scrittori come Arthur C. Clarke avevano basi scientifiche solide – credo che lui abbia lavorato alla costruzione di satelliti, tipo – ma nella narrazione se ne fregavano; Verne dice andiamo al centro della terra e non gli interessa se non si può fare: se oggi a un editore dici di voler far un fumetto sulla gente che vola ti dicono che, se non è ancorata nel mondo della tecnologia allora è una fantasia da poco. Invece io vorrei superare la domanda del come si fa. Ci sono i temi, come quelli del volo, che mi affascinano, o come la telepatia [in L’Intervista, n.d.I]: non credo che esista, ho letto anche dei libri, però non ci credo [ride] e proprio per quello mi piace giocare quella carta lì; e se fosse così, se riuscissimo a conoscerci così, cosa cambia? Questo fa sballare i ragionamenti. È una metafora di quello che non è reale, della magia, di quello che l’uomo potrebbe fare e l’animale no, e questo c’è sempre stato: pensa al volo, le streghe sulla scopa, pensa al tappeto volante.

SM: Durante il BilBolBul hai parlato dei tuoi film: L’Eclisse, Picnic a Hanging Rock, Rosemary’s Baby. Tutte grandi protagoniste donne, e misteriose, quasi già altrove. Ma d’altra parte così sono Dora, La signoria Else, Lucia di Cinquemila km al secondo e, soprattutto, sono loro a governare l’azione. Ripenso poi a Monica Vitti in La Notte, a come sembri lontana e misteriosa, ma anche una ragazzina: proprio come Dora, insomma.

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MF: È una cosa che ho notato a posteriori, non ho mai preventivato di occuparmi di personaggi femminili, ma è vero che guardando indietro ritrovo questa piccola galleria che mi ha accompagnato – o che forse ho accompagnato io nel tempo. Questa cosa credo parte dal fatto che ritrovarmi tra le mani un personaggio femminile è per me più entusiasmante: la sua libertà d’azione è maggiore rispetto a quella che avrei con un corrispettivo maschile. Ho anche provato a lavorarci: il mio primissimo libro, Gente di domenica, era in parte autobiografico e parlava dei miei ultimi giorni trascorsi a Berlino, ma quando parli di te, c’è come un senso di vergogna nel farlo e allo stesso tempo anche una maggiore difficoltà a distanziarsi dal personaggio, perché alla fine resti tu. Invece con i personaggi femminili, questa distanza è già data, anche per ragioni puramente biologiche, per cui mi sembrano sempre nuovi: dei pianeti su cui atterro e con un un sacco di cose da scoprire – e, come vorrei fare con Dora, posso guardarli mentre crescono, mentre si evolvono. E poi sì, c’è una caratteristica quasi erotica nell’avere tra le mani un personaggio femminile: dà un piacere diverso nel guardarlo, nell’immaginare cosa pensa.

SM: Robert Motherwell diceva di Antonioni e Rothko che avevano lo stesso tema, il nulla. Antonioni, quando vede le opere di Rothko ne è affascinato, dice che sono quadri fatti di niente, solo di colore. È quello che succede quando la struttura non è al servizio della continuità, quando il colore racconta da solo una storia, diventa per dire emotivo, così come hai sempre fatto nei tuoi lavori, anche se con gli ultimi lavori passi al bianco e nero. Se per Antonioni il punto non è la trama, ma il tempo che passa, tu non usi lo storyboard, così se Dora si mette un calzino, Dora semplicemente si mette un calzino, come Jeanne Moreau stacca un pezzo di intonaco dal muro in una scena de La Notte (Moravia diceva una cosa bellissima su questo film, cioè che alla fine è quello che facciamo per tutto il giorno: stacchiamo pezzi di intonaco dal muro). Eppure non c’è niente di casuale nei tuoi lavori, i tuoi personaggi si muovono sempre con consapevolezza nello spazio.

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MF: Se si muovono con consapevolezza nello spazio è perché più che alla storia, ho pensato a fondo allo spazio, e al tempo. Con l’esperienza mi sembra che una delle cose più importanti nel raccontare una storia sia quello di far sì che una cosa sia molto ben incollata all’altra, la precedente alla successiva e dopo al limite poco importa cosa stai raccontando, ma questa colla – tra una vignetta e l’altra, tra una pagina e la seguente – deve essere molto forte, anche quando vai a raccontare una rottura, un salto temporale: con questa calamita, a prescindere da cosa stai raccontando, è come se tu stessi ipnotizzando chi ti sta leggendo. Questa è una cosa a cui all’inizio non si fa attenzione, perché la cosa principale è dire mi esprimo, mostro il mio punto di vista, i miei disegni: quando esordisci l’importante insomma sei tu. Invece, dopo anni e libri, trovo bellissimo e cruciale il fatto di sapere che uno ti sta leggendo e tu non devi perderlo, devi a tutti i costi stare con lui. Non significa assecondarlo, dargli ciò di cui ha voglia, è dirgli siediti e ascolta, ti racconto questa cosa qui. C’è il nostro editore, Igor [Tuveri, Coconino Press] che ci dice sempre voi dovete andare da quell’ortofrutta e dirgli ascolta questa storia e lui deve ascoltare: quando lo diceva all’inizio pensavo scherzasse e, invece, è proprio questo il mio mestiere. Il significato lo trovo io mentre racconto e lo trova da solo chi ascolta, però questo periodo che si passa assieme – ed è molto breve per un fumetto, un’ora, e che avviene in differita con la lettura, ma per una canzone sarebbe ancora più breve – vorrei che fosse il più  intenso possibile. Paolo Bacilieri, un autore che io ammiro tantissimo, ha detto in un’intervista che il lettore non esiste, ed è bello dire così, me ne frego, ma io devo dire, in realtà, penso piuttosto “una seconda persona che legge, qua, si inceppa? Si perde?”; queste sono cose a cui penso in continuazione: a come dargli la mano e aiutarlo a superare un passaggio difficile che voglio che faccia. È questo su cui faccio sempre più attenzione: è qui il fine del mio lavoro. Non faccio disegni perché rimangano in casa appesi al muro, li faccio per dei libri e credo che si debba assumere fino in fondo questo fatto qua, che sei lì non per essere compreso o per chiarire dei tuoi problemi, sei lì per avere questa specie di transfert.

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SM: Una specie di telepatia, insomma, ancora. E adesso cosa ci aspetta?

MF: Vorrei continuare un po’ con l’ampliamento dell’universo di Dora: mi piacerebbe fare un libro un po’ diverso da quelli che ho fatto di solito, meno graphic novel, più concentrato come quello che ho preparato per l’Orsay, solo 64 pagine, ma più dense – e forse ancora di più concentrato, con un formato diverso. E vorrei che il tema fosse il volo, perché molti indizi mi portano là: in una delle pagine finali di L’Intervista, alcuni dei personaggi sembra volino sulle scale e quell’immagine è stata la scintilla per questa idea e vorrei usare quel contesto che sto costruendo – anche nel finale dell’Età della febbre i personaggi trovano questo materiale più leggero degli altri, che il signore anziano riesce a far levitare per un attimo.
Invece il libro sull’Orsay a cui mi riferivo prima, mi è stato commissionato dal mio editore e dal Musée: ho avuto un anno e mezzo per girare nel museo e inventarmi una storia che avesse a che fare con l’Orsay, le opere e gli artisti. Dato che non sono stato capace di fare una selezione, ne è venuto fuori una specie di tour de force, pensavo continuamente che non potevo non mettere questo o quello: alla fine sono riuscito a salvare l’80% di quello che mi piaceva.

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[Manuele Fior è nato a Cesena nel 1975 e vive a Parigi. Dopo la laurea in Architettura a Venezia nel 2000, si trasferisce a Berlino, dove lavora fino al 2005 come fumettista, illustratore e architetto. Nel 1994 vince il primo premio alla “Bienal do Juvenes Criadores do mediteraneo” di Lisbona – settore fumetto. La collaborazione con l’editore tedesco Avant-Verlag comincia nel 2001 con la rivista “Plaque”. Da allora inaugura una fitta produzione di storie corte a fumetti scritte dal fratello Daniele, apparse su “Black”, “Bile Noire”, “Stripburger”, “Forresten”, “Osmosa”.
Collabora con le sue illustrazioni per “The New Yorker”, “Le Monde”, “Vanity Fair”, Feltrinelli, Einaudi, “Sole 24 Ore”, Edizioni EL, Fabbri, “Internazionale”, Il Manifesto, “Rolling Stone Magazine”, Les Inrocks, Nathan, Bayard, Far East Festival].


[SSdP] Le sentinelle siamo noi

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– Francesco D’Isa –

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Ritorna il Sublime Simposio del Potere, che con la seconda edizione si consacra come appuntamento fisso. Quest’anno ci siamo dati un tema: i topoi del fantasy. Ci siamo incontrati il 23 gennaio alla Cité, a Firenze, per quattro ore in tanti altri mondi. Eravamo dieci a parlare: Silvia Costantino, Francesco D’Isa, Giovanni De Feo, Vincenzo Marasco, Francesca Matteoni, Edoardo Rialti, Vanni Santoni, Matteo Strukul, Sergio Vivaldi.
Qui trovate tutti gli interventi precedenti, per arrivare preparati all’anno prossimo.

Potete chiamarli Guardie di Palazzo, Guardie Cittadine o Guardie e basta. Qualunque nome abbiano, in ogni opera di genere fantasy-eroico il loro scopo è lo stesso: più o meno al capitolo 3 (o dopo 10 minuti di film) irrompono nella stanza, attaccano l’eroe uno alla volta e vengono massacrati. Nessuno chiede mai se sono d’accordo. Questo libro è dedicato a quei nobilissimi uomini.

– Terry Pratchett

Un manipolo di eroi, col suo carico di artefatti e armi incantate, si dirige verso l’orizzonte. Li attende una leggendaria battaglia; affronteranno dei mostruosi titani, in grado di annientare intere civiltà con una stretta di mano. Un po’ più in là invece, dietro a questo gruppo di valorosi, si intravede una città; al suo interno un castello, attorno al castello una cinta muraria e sugli spalti dei soldati. I soldati sono semplici uomini, e non possono nulla contro i titani, la loro sorte dipende interamente dalla battaglia degli eroi. Sono persone qualunque e per quanto possano avere coraggio, la loro natura è quella di tutti i comuni mortali, la nostra.

Le sentinelle sugli spalti, gli orchetti degli eserciti di Sauron, i punk ghignanti di Kenshiro, le Stormtroopers di Guerre Stellari… la letteratura fantastica negli anni ha attraversato dei grandi mutamenti, ma di una cosa non può liberarsi: la “carne da macello”.

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Si tratta di persone, mostri o creature il cui scopo, nel fantasy così come nella mitologia, è dare una misura a ciò che non sarebbe calcolabile, l’immenso potere degli eroi e dei loro avversari. Guardie, orchetti, sentinelle, cittadini, tutta la marmaglia che crolla al soffio del più debole degli eroi, non sono altro che l’unità di misura minima del potere, il millimetro di cui è fatto il centimetro che compone il metro che crea il chilometro degli dei. Ma non per questo vanno dileggiati come se fossero inutili comparse, perché compongono l’alfabeto con cui la mitologia cerca di avvicinarci al concetto di infinito.

Qualche esempio. Se vi trovate davanti un orco degli eserciti di Sauron del Signore degli Anelli, probabilmente avrete la peggio. Questo perché nel mondo di Tolkien siete – senza offesa – un gradino ancora più basso dell’orco nella scala del potere, anzi, siete proprio il gradino più basso, il cosiddetto commoner, l’individuo comune che appare anche nel D&D e nei videogiochi. D’altro canto sapete anche che da qualche parte ci sono eroi che non solo sconfiggerebbero l’orco senza timore, ma che, come Gimli e Legolas, farebbero addirittura a gara a chi ne ammazza di più. Non solo; un potente stregone, quale Saruman, sconfiggerebbe senza troppi problemi questi due potenti guerrieri, ma avrebbe qualche difficoltà contro un demone antico come un Balrog, che a sua volta nulla potrebbe contro Sauron, l’Oscuro Signore, che in principio era schiavo del crudele dio Morgoth… quanto ci si siamo allontanati dalle vostre misere forze? Eppure non potremmo comprendere la potenza di un Morgoth senza percorrere la scala di cui siete i gradini.

Nel celebre fumetto e anime Dragonball, come nella leggenda da cui è tratto, Lo Scimmiotto di Wu Ch’êng-ên, questo meccanismo è portato all’esasperazione. Ogni avversario richiede a chi lo sconfigge degli sforzi immensi, ma il vincitore a sua volta non riesce neanche a scalfire il nemico successivo, che a sua volta non può nulla contro chi lo sconfigge e così via, da Vegeta a Freezer, da Freezer a Cell, da Cell a Majin Buu.

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Un esempio ancora più estremo è la classifica dei supereroi della Marvel – già si parla supereroi, che è gente non solo più forte di noi, ma anche degli eroi. Questi innumerevoli personaggi vengono sistemati in una complessa gerarchia che compone il cosiddetto “Universo Marvel”, una dimensione spazio-temporale immaginaria nel quale si svolgono la maggior parte delle avventure dei fumetti pubblicati dalla Marvel Comics. Impossibile descriverlo in breve, ma scalando velocemente la piramide del potere, si arriva presto a divinità come Thor e Odino, che comunque non sono nulla in confronto a strani personaggi come Galactus.

Passare dal commoner (che nell’ Universo Marvel potrebbe essere un passante di New York City) a creature il cui potere è sufficiente a distruggere interi mondi, costringe gli autori Marvel a personificare anche delle entità astratte. Cito liberamente da Wikipedia, che per informazioni di questo tipo è sempre affidabilissima:

Sopra ogni essere dell’Universo Marvel, ci sono le Entità Cosmiche, creature con poteri inimmaginabili che esistono per compiere il dovere di mantenere la vita nell’universo. Molti di loro non si preoccupano degli “esseri inferiori” come gli umani, e infatti le conseguenze delle loro azioni possono essere pericolose per i mortali. Quando feroci nemici minacciano l’integrità dell’universo, non è insolito che queste entità si radunino e discutano sul problema. Tra le più importanti ci sono Morte, Eternità, Galactus e infine il Tribunale Vivente, un essere onnipotente, onnipresente e onnisciente. Sopra tutti gli dei, le entità cosmiche e anche sopra il Tribunale Vivente esiste una sola, unica suprema creatura conosciuta come il “Supremo”. [Traduzione italiana di: One-Above-All] […] Il Supremo è completamente onnipotente, onnisciente, onnipresente, universale, onniveggente e onnicomprensivo. È al di sopra di tutto e tutti e nessuno può opporsi alla sua volontà. Perfino l’esistenza è insignificante per lui. Il potere del Cuore dell’Universo è infinitamente inferiore a quello del Supremo. Il suo potere è infinitamente superiore a tutto quello contenuto nell’intero Omniverso.

Il Supremo è l’infinito, il punto di fuga verso cui tende l’iperbole del potere. L’Universo Marvel, così come quello del Signore degli Anelli, Dragonball, Kenshiro, Guerre Stellari e tutte le produzioni fantasy, cerca di assolvere uno dei compiti più teologici della mitologia, avvicinare l’uomo all’infinito.

È il momento di raccontare in breve un’antica leggenda indiana, tratta dal Mārkandeya Purāṇa.
Un demone, di nome Mahishasura, grazie a intense preghiere a Brahma, ottiene la grazia di non poter essere sconfitto da alcun uomo o essere celeste. In virtù di questo potere, attacca gli dèi stessi e li sconfigge tutti. Scatena un regno di terrore su terra, il cielo e gli inferi. Gli dèi creano allora un abbagliante raggio di energia dal quale nasce la dea Durga. La sua forma è di una bellezza accecante, con il viso scolpito da Śiva, il busto da Indra, il seno da Chandra (la Luna), i denti da Brahma, le natiche dalla Terra, le cosce e i ginocchi da Varuna (il vento), e i suoi tre occhi da Agni (il fuoco), il corpo dorato e dieci braccia. Ogni dio le diede anche la sua arma più potente: Śiva il tridente, Viṣṇu il disco, Indra la vajra, dalla quale scaturisce la folgore, ecc.
La dea raggiunge Mahishasura, uccidendo le migliaia di demoni che cercano di contrastarla lungo il cammino. È così bella che inizialmente il mostro le propone di sposarla, ma la dea, che può ambire a qualcosa di più che un demone che somiglia a un bufalo, lo uccide dopo una tremenda battaglia. La battaglia è lunga e terribile, ma Durga la inscena quasi per cortesia, perché è in grado di sconfiggere il nemico con un colpo solo.

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Perché Durga non ammazza subito il bufalo-demone? Le interpretazioni sono varie; si dice che la dea, nella sua bontà, voglia concedere al demone una possibilità di espiazione, che può accadere solo attraverso la sua vana lotta contro l’infinito potere di Durga. Davanti al vero potere degli dei (davanti all’infinito) le potenze terrene (i numeri finiti) non sono altro che metafore; in questo senso la mitologia, e con lei il fantasy, ci racconta un’unica storia ineffabile e indicibile, nella quale i nostri “uomini comuni” hanno un ruolo a pari merito con gli dei. In fondo, davanti all’∞, che differenza c’è tra 4 e duemila miliardi?

Ricapitoliamo. I commoner non possono nulla contro gli orchetti, che non possono nulla contro gli eroi, che non possono nulla contro un drago eccetera eccetera, ma tutti, e qui sta il punto, sono impotenti di fronte all’infinito. Si potrebbe obiettare: «Ok, siamo degli sfigati, ma perché questo impegno per farcelo notare?». La summenzionata Durga direbbe che riconoscere la piccolezza del nostro mondo limita la misura del dolore e dei desideri che lo pervadono. E se la consolazione non fosse un motivo sufficiente, si percorra la strada a ritroso: niente orchetti senza commoner, niente eroi senza orchetti, niente draghi senza eroi, niente infinito senza draghi. E dunque niente infinito senza di voi.


Francesco D’Isa ha esposto quadri e pubblicato libri, come I., (Nottetempo, 2011), Anna – storia di un palindromo (Effequ, 2014), Ultimo piano (o porno totale) (Imprimatur, 2015), Forse non tutti sanno che a Firenze… (Newton Compton 2015). Dirige L’INDISCRETO e scrive su vari blog e giornali.


[SSdP] Pussy Riot – L’eroina nel romanzo fantasy

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– Matteo Strukul –

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Ritorna il Sublime Simposio del Potere, che con la seconda edizione si consacra come appuntamento fisso. Quest’anno ci siamo dati un tema: i topoi del fantasy. Ci siamo incontrati il 23 gennaio alla Cité, a Firenze, per quattro ore in tanti altri mondi. Eravamo dieci a parlare: Silvia Costantino, Francesco D’Isa, Giovanni De Feo, Vincenzo Marasco, Francesca Matteoni, Edoardo Rialti, Vanni Santoni, Matteo Strukul, Sergio Vivaldi.
Qui trovate tutti gli interventi precedenti, per arrivare preparati all’anno prossimo.

Inizierei il mio intervento riflettendo su quanto le origini di una pressoché infinita galleria di personaggi femminili del fantasy più recente (Katniss Everdeen di Suzanne Collins, Clary di Cassandra Clare, Celaena di Sarah J. Maas, Kelsea Glynn di Erika Johansen) siano inscindibilmente legate ad alcune delle figure della mitologia che più di tutte – a mio parere – hanno contribuito alla nascita di personaggi straordinari. Non potrei allora non ricordare anzitutto le Valchirie: le loro cavalcature erano i lupi (Valchiria+lupo=corvo) che si aggiravano fra i cadaveri dei guerrieri morti in battaglia. Esse erano le figlie di Wotan o Odino e sceglievano i più eroici tra i caduti per portarli nel Valhalla, dove diventavano einherjar. Così facendo, Odino avrebbe avuto un esercito di valorosi al suo fianco alla fine del mondo, durante i Ragnarök. Al loro fianco porrei le Banshee, le donne piangenti e urlanti del folclore irlandese, che vivevano vicino alle paludi o alle sorgenti. Rimanendo in questa tradizione europea, ricorderei alcune figure chiave di personaggi femminili di riferimento per le moderne eroine fantasy, al di là degli archetipi, voglio dire.

Cito allora Brunilde regina d’Islanda di cui Gunther re dei Burgundi, fratello di Crimilde, s’innamora nel Nibelungenlied. Per ottenere la sua mano; il re decide di chiedere aiuto al compagno d’armi Sigfrido, figlio di Siegmund e Sieglinde, eroe vincitore dei Nibelunghi, reso invulnerabile dal sangue del drago Fafnir. Questi, in cambio della mano di Crimilde, decide di aiutarlo. Brunilde, vergine guerriera dalla forza immensa, impone una duplice prova ai suoi pretendenti: la sposerà solo chi riuscirà a raggiungere d’un balzo un masso scagliato da lei lontano e riuscirà a vincerla in duello. Brunilde sa bene che è una sfida impossibile, e pregusta l’ennesima vittoria. Ma Sigfrido, reso invisibile grazie alla Tarnkappe rubata al nano Alberico, combatte al fianco di Gunther e batte Brunilde: la vittoria dei due uomini, insomma, è possibile solo con l’inganno.
E ancora, per rimanere nel Nibelungenlied, che dire di Crimilde e della sua sanguinaria vendetta protagonista dell’intera seconda parte della saga germanica? Colei che per vendicare la morte dell’amato non esita a chiudere la sala del trono, facendo appiccare il fuoco e così sterminando tutti i Burgundi?

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Ma, per non fermare la nostra indagine al mondo germanico, conviene anche guardare alle Amazzoni, di origine Caucasica secondo Eschilo, con la mammella mutilata per meglio (Virgilio stesso nell’Eneide immagina Pentesilea – una delle loro regine – con il seno compresso da una fascia dorata) tirare con l’arco. E ancora, come poter riassumere in poche parole una figura come quella di Clorinda, la guerriera della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, figlia di Senapo, re d’Etiopia e dunque Africana ma albina, uccisa da Tancredi in duello per errore? E non dimentichiamo Armida, Circe, Didone…

Dunque quali e quante sono le maghe e le guerriere, le streghe e le combattenti della nostra tradizione letteraria e più in generale di quella europea, e quanto il mito e il folklore hanno forgiato il fantasy ben prima che un professore inglese decidesse di scrivere una storia su uno hobbit? Lo dico senza arroganza o albagia, ma al solo scopo di richiamare l’attenzione su quella che è un’eredità di cui dobbiamo imparare a riappropriarci. Che dire di Giovanna D’Arco e delle sue visioni? O del mito sanguinario di Erszebeth Bathory, la contessa nera d’Ungheria? E dunque quanto il medioevo e la storia più nera delle terre dell’Est e in definitiva la Storia e il romanzo storico hanno saputo forgiare il materiale magmatico del fantasy? E non dovremmo ancora e forse pensare a quanta parte hanno avuto i “Penny Dreadful” e la Pulp Fiction nella formazione di alcuni personaggi? Proprio alla Storia pensa Robert E. Howard quando nel 1934 immagina il personaggio di Red Sonya of Rogatino per il racconto The Shadow of the Vulture, una guerriera turca dalla chioma rossa durante l’assedio di Solimano il Magnifico, che a sua volta diventa archetipo per la Red Sonya di Roy Thomas e Barry Windsor Smith.

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Insomma, esiste nella tradizione letteraria storica e fantastica un’incredibile schiera di personaggi femminili – noi ci siamo limitati a segnalarvene alcuni – e sono proprio loro la più grande ispirazione per i moderni e grandi personaggi femminili del fantasy, e ancor di più del Low Fantasy o dello Sword and Sorcery.

Per la prima volta ho scelto una donna come protagonista. Bella da mozzare il fiato, Monza Murcatto è un capitano di ventura, ed è diventata tale grazie ai propri meriti militari, ottenendo il successo in un mondo maschile per eccellenza. Tutto ciò l’ha resa spietata, paranoica, forte fisicamente e con uno humor caustico. Una fama sinistra le ha garantito l’ammirazione dei suoi, incutendo il terrore negli avversari. Dopo essere stata tradita e quasi uccisa, cercherà vendetta. Assolderà tagliagole, avvelenatori e mercenari ma sarà lei a uccidere con le proprie mani i suoi nemici.

Sono queste le parole con le quali un maestro contemporaneo del fantasy, Joe Abercrombie, ci racconta la protagonista di Best served cold, sottolineando quali e quante prospettive il personaggio femminile possa aprire in un genere come il fantasy: l’ossessione, la vendetta consumata fredda, la menzogna, la paranoia, il coraggio e la fragilità, lo humor caustico: quelle qualità che sono spesso prerogativa di un personaggio femminile proprio perché è più la donna – nella sua complessità – a presentare per l’autore la grande sfida di raccontare un personaggio complesso, sfaccettato, contraddittorio e perciò affascinante e così facendo profondamente noir e lirico.

Interessante poi sottolineare l’opinione di Licia Troisi – regina del fantasy italiano e capace di creare eroine memorabili come Nihal, Dubhe, Talitha e molte altre:

Quando ho cominciato a descrivere personaggi femminili forti, mi sono semplicemente ispirata a quelle che erano le mie figure di riferimento: mia madre, le donne che mi sono state vicino, la donna che volevo essere io… Avendo intorno delle donne forti per me era naturale descrivere donne che fossero fuori dagli schemi, autonome e libere di fare quello che volevano. Adesso sono diventata più consapevole del contesto in cui ci troviamo, quindi non si tratta più di una scelta ingenua. Quando creo un personaggio femminile sono contenta di farne uno al di fuori degli stereotipi classici della nostra società. Ho l’impressione che ci sia un modello di donna molto pervasivo: o la donna completamente dedita alla famiglia, che si annulla in essa, oppure la donna di malaffare che ha solo il suo corpo per riuscire ad emanciparsi. Siccome in mezzo ci sono miliardi di altre declinazioni del femminile secondo me è importante che qualcuno le possa presentare. La mia impressione è che nella letteratura ci sia questa volontà, e che in questo momento ci siano molte eroine femminili, come ad esempio Katniss Everdeen, che mi ha subito colpita molto come personaggio. Il problema è che la letteratura, almeno in Italia, ha una capacità di penetrazione tutto sommato limitata. I libri continuano purtroppo a parlare a persone che queste cose le sanno già.

Joe Abercrombie propone dunque l’eroina come nuova prospettiva letteraria per i personaggi fantasy, Licia Troisi vi vede anche un simbolo per sovvertire i cliché sulle donne proprio attraverso la letteratura. Oppure, ancora, l’eroina e il personaggio femminile consentono la rilettura della storia in una chiave completamente nuova, pensate a quel capolavoro che è La torcia di Marion Zimmer Bradley, che prende le mosse dalle visioni di Cassandra, la principessa troiana condannata dagli dèi a non essere mai creduta. Per bocca di lei, l’autrice fa rivivere gli eventi che portarono alla caduta di Troia, le gesta dei guerrieri, i riti e le leggende di un passato che ci parrà di conoscere per la prima volta. E per la prima volta vedremo, con i suoi occhi, ciò che a nessuno era dato di vedere.

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Ecuba che abbandona la sua formazione tra le amazzoni per sedere al fianco di Priamo come Regina di Troia; Clitemnestra sottomessa al marito, che si vede strappare la primogenita cui sperava di donare il dominio di Micene in nome di dèi per lei falsi; Elena, costretta al matrimonio con Menelao dal suo popolo, che ha seguito i comandi di Afrodite ed è fuggita a Troia al seguito dell’uomo che amava, invisa alle nuove parenti e alle usanze di Ilio, e diverrà involontaria causa della caduta della città; Andromaca, figlia dell’incontrastata regina di Colchide, che ha preferito darsi in sposa a Ettore per ottenere la protezione degli uomini che la madre tanto disprezzava. Ecco il ribaltamento della prospettiva, la fusione fra mito, epica e fantastico, un esempio mirabile, ecco il racconto della guerra di Ilio visto attraverso gli occhi di Cassandra: contesa tra la Dea e Apollo, che crebbe sotto l’ala della Madre di tutto e divenne sacerdotessa del Dio del Sole, e che fu da lui punita perché rifiutò di concederglisi con la privazione della Vista. Ma un dio non può privare un mortale di un dono che non è stato lui a concedergli, dunque la sua punizione si trasformò nella maledizione di Cassandra: predire e non essere mai creduta. Invisa ai suoi stessi familiari, persino allo stesso fratello gemello, perché continua latrice di cattive notizie, Cassandra si sposta di paese in paese alla ricerca di un luogo che l’accetti, e tuttavia sempre spinta dal suo fato a tornare a Troia, dove si compirà il suo destino.

Concluderei con un altro autore che stimo e che molto sta dando al genere fantastico italiano e non solo ed è, pensando a Ailis, la protagonista della trilogia di Terra ignota, Vanni Santoni:

La scelta di una protagonista femminile era naturale. L’eroe maschio è esploratissimo a tutti i livelli, mentre l’eroina donna è ancora un territorio relativamente vergine, certo ci sono dei capisaldi, penso a Battle angel Alita, a Kill bill, a Queste oscure materie, a Ghost in the shell, al recente Hunger Games, oltre che ovviamente alla prima, più diretta e più grande “madre” di Ailis, l’Alice di Carrol, ma c’è ancora molto spazio per declinare l’archetipo in nuove direzioni. C’entra poi il fatto che un mondo ancestrale al femminile – un mondo di dee – è, di fatto, “più ancestrale” di un mondo di dèi.

Radice ancestrale, avita, atavica, primigenia: è forse il fantastico in chiave femminile la culla prima della letteratura? Noi non lo sappiamo, ma quel che è certo è che proprio dalle posizioni che ripetono le proprie origini dalla fonte del grande fiume della letteratura popolare che il fantastico italiano deve ripartire.


Matteo Strukul (Padova, 1973) è scrittore e sceneggiatore di fumetti. Vive fra Padova, Berlino e la Transilvania. Ideatore e fondatore del movimento letterario Sugarpulp e direttore artistico dell’omonimo festival. Collabora con diverse testate, tra cui il Venerdì di Repubblica.
Ha pubblicato per Mondadori La giostra dei fiori spezzati (2014) e per Multiplayer I Cavalieri del Nord (2015). Scoperto da Massimo Carlotto, ha pubblicato per le edizioni e/o i tre romanzi della serie di Mila: La ballata di Mila (2011), Regina nera (2013) e Cucciolo d’uomo (2015). Nel 2016 è in uscita con un romanzo per Fanucci e nel 2017 con un altro su Giacomo Casanova per Mondadori.


[SSdP] Contro la perfezione: il mito dell’antieroe

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– Alfonso Zarbo –

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Ritorna il Sublime Simposio del Potere, che con la seconda edizione si consacra come appuntamento fisso. Quest’anno ci siamo dati un tema: i topoi del fantasy. Ci siamo incontrati il 23 gennaio alla Cité, a Firenze, per quattro ore in tanti altri mondi. Eravamo dieci a parlare: Silvia Costantino, Francesco D’Isa, Giovanni De Feo, Vincenzo Marasco, Francesca Matteoni, Edoardo Rialti, Vanni Santoni, Matteo Strukul, Sergio Vivaldi.
Qui trovate tutti gli interventi precedenti, per arrivare preparati all’anno prossimo.

Diciamola tutta: dell’eroe classico, quello dal cuore d’oro, che vuole solo il bene comune e si comporta sempre in modo corretto e gentile, non importa più niente a nessuno. Lo ha fatto fuori l’antieroe. Nel cinema come nella letteratura, dove non c’è tornaconto personale le alleanze si sfaldano, il cinismo soppianta l’altruismo, e quello che la spunta è un losco, sarcastico, menefreghista dal tradimento facile che non si fa problemi a rubare (Jack Sparrow). O un bello ma dannato (Spartacus, nella serie TV firmata STARZ). O un donnaiolo, bugiardo, che beve, gioca d’azzardo ed è anche un po’ maschilista, ma nonostante tutto ha un carisma da vendere e riesce a conquistarci con il suo ghigno feroce (Conan il barbaro). O, ancora, possiede un’intelligenza distante anni luce dai comuni mortali (Tyrion Lannister). Che ogni tanto, però, mostra il suo lato più sensibile, perché si badi bene: l’antieroe non è il cattivo della situazione. Anzi, talvolta è più risolutore dell’eroe stesso. E allora non possiamo che tifare per lui.

La definizione classica di antieroe vuole appunto una figura priva delle connotazioni puramente positive generalmente attribuite all’eroe: irascibile, fallibile. Se ne può avere una lettura epica e quasi drammatica, oppure, come in un caso famoso che vedremo più avanti, il ribaltamento può avvenire in chiave comica, picaresca. In ogni caso, quello che viene meno, è la purezza lineare delle azioni dell’eroe, in favore di ragionamenti più contorti, talvolta oscuri. L’antieroe, insomma, ci piace così: difficile da inquadrare e da analizzare nel profondo per essere compreso. Che siano politicamente scorretti, pieni di difetti o che vivano in una realtà tutta loro infischiandosene dei dettami della società, sono loro i protagonisti di cui vogliamo sapere tutto.

E non è certo una figura nata ai giorni nostri: basta dare un’occhiata alle origini della narrativa fantastica per farsi un’idea di quei personaggi indimenticabili che per primi hanno dato una spallata al perfettino di turno.
Nel mito assiro-babilonese, c’è Gilgamesh: un re crudele, per due terzi divino e per un terzo mortale, le cui prepotenze nei confronti del popolo di Uruk spingono gli dèi a generare un rivale per contrastarlo. Gilgamesh è il primo a dover fare i conti con la fragilità della vita. La sua volontà di sopravvivenza rivela uno stato d’animo che affronta la precarietà quotidiana con ansia, mentre l’apparizione del nemico/amico Enkidu lo porterà ad accorgersi che il trascorrere del tempo nell’oltretomba è fatto di rimpianti per le occasioni perdute. Un eroe tragico, il cui senso di smarrimento lo accomuna agli uomini di allora e di oggi, che ci fa immedesimare in lui.
I secoli scorrono, l’acciaio anche, e nelle terre irlandesi si fa strada con prepotenza il mito celtico di Cùchulainn. Può il “Mastino di Irlanda”, ragazzo fragile all’apparenza ma che sa trasformarsi in un combattente dalle collere devastanti, non ricordarci il famoso barbaro partorito dalla mente di Robert Ervin Howard? Chùchulainn guadagna il suo nome quando uccide il cane da guardia del fabbro Culann e, per riparare al torto, si offre di sostituirlo come servitore.  I racconti su di lui lo spingono verso una vita amara quanto quella di Gilgamesh: Cùchulainn è infatti destinato a soprendere un intruso, ucciderlo perché rifiuta di farsi identificare, e scoprire poi che si trattava del proprio figlio, partito alla sua ricerca.

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Come dicevamo poco fa, però, non esistono solo antieroi epici. Lo dimostra il cavaliere errante più impacciato di tutti i tempi: Don Chisciotte della Mancia. Uomo qualunque, rimasto così affascinato dalle storie epico-cavalleresche da farsi nominare cavaliere da un locandiere, il personaggio di Miguel De Cervantes vive in un mondo tutto suo, combattendo contro mulini a vento ed eserciti di pecore. Finirà col perdere in tutte le sue paradossali avventure, suscitando l’ilarità delle persone che assistono alle sue folli gesta. Il finale dolceamaro del libro serve a ristabilire gli equilibri di ciò che è vero e ciò che è falso, ma per ogni lettore la “realtà” di Don Chisciotte rimarrà sempre quella in cui lui è più felice e a suo agio, a prescindere dalle risate altrui.

Arriviamo a cavallo tra la fine del Settecento e il tardo Ottocento, e ancora una volta quello che poi diventerà il genere Fantasy, così come la figura stessa dell’antieroe, traggono nuova linfa da leggende e nuove narrazioni: in questo caso, a farla da padroni sono i romanzi del terrore, figli dark dei miti luminosi e eroici dello Sturm Und Drang. Con il Romanticismo europeo ricompaiono infatti elementi mitologici che troveranno ampio sviluppo prima in forma narrativa e poi nel cinema, ma il concetto di bellezza, di virtù e perfino del cosiddetto eroe “senza macchia e senza paura” oltrepassa finalmente il senso tradizionale. Si comincia ad apprezzare non soltanto il lato bello delle cose ma anche quello spaventoso, atipico, violento. Scompare ogni traccia di una volontà ultraterrena che guida le gesta dei protagonisti, e anzi si esaltano l’emotività e l’affermazione del carattere individuale dell’artista, condannato al sentirsi escluso dalla società in quanto individuo incompreso, ma allo stesso tempo “privilegiato” perché dotato di immaginazione e profondità maggiori rispetto alla gente comune: basti pensare ai grandi poeti del Decadentismo, alla baudelairiana “perdita dell’aureola”.
Parallelamente, unendo la nuova cupezza narrativa alla passione per lo strano e il soprannaturale, fanno la loro comparsa personaggi e libri indimenticabili come Dracula di Bram Stoker, ispirato alla figura storica del principe valacco Vlad l’Impalatore; Frankenstein di Mary Shelley, che approfondisce il rapporto tra l’uomo e la scienza, i limiti scientifici oltre i quali non è lecito spingersi e diventa il simbolo del “diverso” emarginato dalla società e della creatura artificiale che si ribella al creatore.
Grazie a un maestro del calibro di Edgar Allan Poe, i lettori si immergono sempre di più negli abissi dell’io, nelle angosce e nelle paure dell’uomo moderno. Robert Louis Stevenson darà vita a Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, insinuando l’idea dello sdoppiamento, e Arthur Conan Doyle non sarà da meno, con le qualità fuori dal comune, i misteri da risolvere e le atmosfere tenebrose del suo Sherlock Holmes.

E nel Fantasy? L’antieroe per eccellenza, almeno per un appassionato del filone Sword and Sorcery, non può essere che Solomon Kane: lo spadaccino puritano inglese del 1500 in viaggio per combattere senza tregua contro le manifestazioni del Diavolo. Il personaggio creato da Robert Ervin Howard sa essere incline a una fredda austerità quanto alla vendetta, ma non è amorale o impulsivo come Conan il Barbaro o brutale come Bran Mak Morn. Kane è guidato dalla fede, ed è nel suo nome che affronta pirati, mercanti di schiavi, fantasmi e malvagie civiltà perdute.

Solomon-Kane-Teaser

Meno indottrinato di Solomon ma guidato anche lui da un proprio codice morale, c’è lo strigo Geralt di Rivia (di Andrzej Sapkowski, Editrice Nord). Strigo, appunto, in quanto soggetto a trasformazioni che hanno reso le sue capacità fisiche e mentali sovrumane. La società teme Geralt e i pochi come lui, ma a dispetto dei pregiudizi lui resta quanto più di verosimilmente “umano” e realistico si possa sperare di trovare in un Fantasy. Un guerriero che sa sfruttare anche cuore e cervello oltre alle sue lame, una d’argento per i mostri e una d’acciaio per i mostri veri, in un mondo dove la discriminazione, l’odio e l’arroganza non sono affatto diversi da quelli che possiamo riscontrare nella vita di tutti i giorni.

Sullo stile di Don Chisciotte, George R.R. Martin ha scritto le avventure di Ser Duncan l’Alto e del suo giovane scudiero Egg (Il cavaliere dei Sette Regni, Mondadori), protagonisti di “un mondo sfarzoso fatto di tornei, donne e cavalieri, in cui non mancano complotti e macchinazioni ma in cui c’è posto anche per un innocente eroismo”.

Tra gli antieroi a mio parere meglio riusciti, poi, torno a nominare Tyrion Lannister: il figlio nano, aberrante e sgradito a buona parte della casata Lannister (Il trono di spade, Mondadori) ma allo stesso tempo erudito e intelligentissimo. La scioltezza della sua lingua gli rende salva la vita tante volte quante sono le imprecazioni e le scene di nudo presenti nella serie (e a noi va benissimo così).
Il Folletto ha avuto un degno erede: Yarvi, erede al trono del Gettland nella Trilogia del Mare Infranto di Joe Abercrombie (Mondadori). Nato con una mano deforme che lo condanna a un’infanzia di derisione ed emarginazione in una famiglia di celebri guerrieri di un regno in continua guerra, Yarvi sceglie di dedicarsi all’apprendimento dell’arte del Ministrante per una vita più consona ai propri talenti. Anticiparvi che dovrà sfruttarli a ogni pagina mi pare il minimo.
E siccome di figli indesiderati è pieno il mondo, cito anche il principe Honorius Jorg Ancrath – per gli amici Jorg, anche se lui di amici non è che ne abbia molti – dell’autore statunitense Mark Lawrence (La trilogia dei fulmini, Newton Compton). Jorg ha meditato la vendetta per anni, fuggendo dal palazzo reale e vivendo per strada fino a diventare il capo di una spietata banda di fuorilegge. In un’intervista che ho rivolto all’autore, alla domanda «Perché una storia di cattivi?», Lawrence ha risposto di essersi ispirato ad Arancia meccanica di Anthony Burgess, nel quale un giovane uomo, seppure violento e amorale, cattura il lettore attraverso il proprio charme. Voleva dare vita a un personaggio altrettanto carismatico in un’ambientazione fantasy.
Un altro personaggio di quelli che “fanno andare il cervello prima della spada” è Elric di Melniboné, concepito dalla penna di Michael Moorcock (Editrice Nord). Di famiglia reale, albino, fragile, disilluso, Elric è l’ultimo imperatore, in linea di sangue, di un impero antichissimo che ha governato il mondo per millenni. Ma la sua gente ha ceduto all’indolenza, e la sola cosa che tiene a freno i popoli rivali è la leggendaria crudeltà dei melniboneani. Niente di più falso: lo stesso Elric è cagionevole di salute, di carattere mite e riflessivo, ed è tutt’altro che un colosso, ma ha il buon senso di ricorrere all’uso di pozioni magiche e ai poteri della sua spada, Stormbringer, per apparire come il dominatore temibile che dovrebbe essere.

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Riprendiamo il discorso della scorsa settimana e cerchiamo tra le donne qualche candidata a perfetta antieroina: una su tutte potrebbe essere Arya Stark: la sua famiglia sarà anche la più onorevole de Il trono di spade, ma il consiglio più prezioso che le abbiano dato resta: “infilzali con la punta”. E lei di nemici ne ha infilzati eccome! Vagando da un regno all’altro, aprendo la mente a nuove convinzioni, cambiando mestieri, identità. Ma senza dimenticare mai la vendetta. D’altra parte, la strada per diventare una seguace del Dio dei Mille Volti è ancora lunga, così come i tanti antieroi che sicuramente mancano a questo appello, o quelli che verranno.


Alfonso Zarbo vive a Lenno, sul Lago di Como. Ha cominciato a scrivere Fantasy nel 2008 e non ha più smesso, trasformando questa passione nel suo lavoro. Ha intervistato per Fantasy Magazine scrittori, illustratori, traduttori, ma anche musicisti e doppiatori. È stato curatore di antologie e collane per la piccola editoria. Ora gestisce i social network della collana Chrysalide di Mondadori ed è consulente sulla saga Il trono di spade. Lo trovate qui.


Il TweetGlossario di #CaLibro 2016

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Come ormai avrete capito, siamo stati a Città di Castello durante CaLibro 2016 – e ce ne siamo innamorati.
Per la bellezza e la varietà degli interventi, e per la loro qualità; per le mangiate di cinghiale (perché “in Umbria il cinghiale è considerato un contorno leggero”); e per la compagnia. CaLibro ha infatti permesso a noi  (Silvia Costantino, Carolina Coriani, Marco Mongelli), a Lavoro Culturale (Massimiliano Coviello, Maria Teresa Grillo e Giulia Romanin Jacur) e a La Balena Bianca (Giacomo Raccis) di lavorare assieme, seguendo gli eventi e facendone un live tweet serrato e diversificato. Non abbiamo modo di riprodurre l’atmosfera del festival, ma vogliamo provare almeno a restituirvi un’idea del fermento e dello scambio che hanno ravvivato Città di Castello dal 31 marzo al 3 aprile 2016.

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[attenzione: per questioni tecniche non ci è possibile pubblicare online tutto lo storify. Ci limitiamo alle voci del TweetGlossario, e vi invitiamo a consultare la pagina originale]


Arte del Comporre

Peculiarità di CaLibro è la capacità di intrecciare arti, discorsi e saperi differenti in un mosaico che l’etichetta di festival finisce quasi per sminuire. Splendida metafora di quest’arte di (ri)comporre tra loro elementi diversi è la tipografia, monumento su cui Città di Castello ha costruito parte della sua storia culturale ed economica. Gianni Ottaviani conduce la Tipografia Grifani Donati, fondata nel 1799, preservando conoscenze e tecniche ormai abbandonate nella convinzione che tutto questo possa valere qualcosa.
Michele Mari, quando incontrò Ottaviani due anni fa, seppe vedere nei suoi gesti e nei suoi strumenti il crisma dell’arte: nasce così l’idea di intrecciare i rispettivi attrezzi del mestiere per dar vita a una composizione unica, una poesia originale, pensata per l’occasione.
Il suono metallico dei caratteri che vengono accostati sulla lastra diventa il correlativo oggettivo di quella musica mentale che il poeta deve saper sentire quando crea. Alla fine, non c’è neanche bisogno di usare la voce per “dire” la composizione, perché il senso sta tutto in questa muta sintonia tra mano e mente, perché «niente in prosa vale, né in poesia / senza il comporre tuo, tipografia».

Copertina

Il libro è anche un oggetto materiale. Ce lo ricordano, in modi diversi, sia la tipografia Grifani Donati con i suoi caratteri mobili sia Riccardo Falcinelli, che preferisce la definizione di “grafico” a quella di “visual designer”. E non solo materiale: occupandosi di copertine, infatti, Falcinelli espone la sua visione della faccenda.
Per lui le copertine sono anche oggetti sociali – nel senso che non possono prescindere dal pubblico cui si rivolgono e dalla società all’interno della quale sono create – e mentali, che rimangono impressi e, per alcuni lettori, perennemente associati ai libri stessi.
Tre sono le domande che ogni grafico dovrebbe porsi: qual è la ragione per cui quel libro deve essere letto, il suo punto di forza; quale la sua debolezza; quale ipotesi di vendita si pone. Attraverso questi elementi il grafico sceglie la propria strategia comunicativa, tenendo a mente che il suo obiettivo è raccontare qualcosa a un pubblico sempre competente più che esprimere se stesso – dire qualcosa di diverso con i codici che tutti conoscono più che inventarne di nuovi. Cosa hanno in comune il faccione della Gioconda ne Il codice Da Vinci di Dan Brown e la prima copertina de La storia di Elsa Morante? Solo il supporto, probabilmente. Perché i lettori a cui parlano sono diversi.

Donne

Dal “gineceo narrativo” di Michela Murgia alle Medichesse di Erika Maderna, fino alle poetesse presenti negli appartamenti, il tema del femminile ha serpeggiato come un torrente sotterraneo durante tutto il festival. Se la Murgia, partendo dalla presentazione del suo Chirù, è arrivata a toccare temi caldissimi e dibattuti come la maternità surrogata o il diritto all’aborto, la rassegna sulle donne e la medicina ha messo in luce le differenze tra la percezione di una medicina maschile, più autorevole, considerata come scientifica, legittima e una medicina femminile, legata ai riti del corpo e del canto e a un’interiorità quasi magica, affascinante ma facilmente delegittimabile (il potere delle streghe, l’alchimia tramutata in cosmesi). Erika Maderna voleva mostrarci il potere “diverso” in positivo delle donne, ma soprattutto è riuscita a evidenziare quanto diverse venissero considerate le donne che provavano ad avere accesso alla scienza. Quasi a sottolineare, volenti o nolenti, che il doppio standard ha origini antiche, e che non sempre l’immenso potere attribuito ad alcune delle numerose donne passate in rassegna coincideva con altrettanta fortuna.
Una forte corporeità si avverte anche nelle poesie lette dalle donne presenti negli appartamenti sfitti di Ai Versi Domiciliari, come a rimarcare forse, ancora una volta, che il sapere femminile passa dall’esperienza – esperienza di sé, delle proprie sensazioni -, ma questa volta la voce magica è lì a riappropriarsi del potere, e a dichiararlo con forza e con piena coscienza del proprio valore. Da una crepa, da una Osnabruck stregata, sempre alla ricerca della misura del mondo.

Fuga

Nell’ampio spettro di forme e contenuti che CaLibro ha coperto quest’anno (cfr. la voce “Trasversalità”) trovano posto – agli antipodi di un’ipotetica scala –“Le avventure del Cannibale e del Pirata. Storie, eroi e libri di ciclismo” da un lato e “Libri in fuga! Un accampamento di racconti dal mondo” dall’altro. A unirli una parola, fuga, che nei due ambiti – il ciclismo e le migrazioni – può rivestirsi di toni epici e drammatici, seppur al di qua e al di là della metafora.
«Solo nel ciclismo la fuga non è considerata un atto di viltà ma un atto di coraggio» ha detto Marco Pastonesi (autore di Pantani era un dio) durante l’incontro. Ci permettiamo di integrare: a pensarci bene, anche scappare dalla violenza e dalla miseria dei luoghi natii per trovare un posto migliore in cui vivere è un atto di coraggio e di volontà per noi impressionante. Insieme ai propri corpi i migranti portano con sé le loro storie, i loro libri: raccontandoseli, e raccontandoceli, comunicano la propria esperienza e trasmettono, attraverso l’universalità delle fiabe, l’universalità imprescindibile della condizione umana.
Essendo la cosa più seria tra le cose non serie lo sport può anche rappresentare un microcosmo artificiale che riflette e rifrange sentimenti ed esperienze reali. La fuga del ciclista è un potente simbolo di tenacia e dolore: si può scattare, andare in fuga, per rendere più breve l’agonia (come faceva Pantani in salita), o per mettere a nudo gli avversari con l’implacabilità e la protervia di un predestinato (come faceva Eddy Merckx, splendidamente descritto da Claudio Gregori nel suo Il figlio del tuono); la fuga può essere il viatico per il Trionfo (a qualsiasi latitudine, Désiré Kaboré insegna) o per la Disfatta (chiedere a Johan Van der Velde).
Nei discorsi a molte voci dei ciclomaniaci e nell’articolata e splendida performance dei Libri in Fuga abbiamo imparato a rispettare la fuga, e ad amare chi fugge.

Gastrofilosofia

Possiamo ragionare sul mondo e sulla vita mentre ci prepariamo la cena, mescolando ingredienti a pensieri? Stando a Ricette umorali di Isabella Pedicini (che ha fatto anche il bis) le due cose non sono affatto disgiunte, e di fronte al cibo si svelano i più profondi – e ironici – drammi umani. Un vero e proprio trattato gastrofilosofico, il suo. Ne avevamo proprio bisogno, tra tutti i libri patinati di cuochi e cuoche più o meno stellati che affollano gli scaffali? Decisamente: sì.

Luce

Luce che penetra dalle finestre spalancate all’interno dei muri sfitti di Città di Castello. In questa domenica pomeriggio sei appartamenti sono abitati dalla parola poetica. Lo sfondo: luce nel pomeriggio. Il sottofondo: brusio della gente a passeggio per le strade.
Le parole sono lette da chi le ha scritte, dai poeti; otto minuti a disposizione per ciascuno: Azzurra d’Agostino, Vincenzo Ostuni, Elisa Biagini, Mariagiorgia Ulbar, Francesco Targhetta e Franco Buffoni. Ognuno ha una sua voce e crea nell’uditore un’intimità – un’intimità diversa, declinata a seconda della posizione della poetessa o del poeta nella stanza, dell’angolazione che prende la luce, del ritmo che prende la parola.
Dopo il festival torno a casa con la sensazione di aver conosciuto per alcuni istanti, abitato per poco tempo, afferrato i frammenti di vita, i frammenti di vita di una città.

Militanza

CaLibro è un festival nato dal basso, dai giovani membri dell’Associazione culturale il Fondino che a un certo punto hanno deciso di provare a trasformare, per alcuni giorni all’anno, la loro Città di Castello in un crocevia di percorsi ed esperienze del mondo del libro e della cultura. E di farlo senza tema di proporre le scelte personali e impegnate: come quella di incentrare il calendario del festival su un laboratorio dedicato ai bambini e all’educazione all’accoglienza (Libri in fuga è infatti il miglior modo per spiegare le difficoltà del viaggio dei profughi e il bisogno di una spontanea solidarietà).
La prima scommessa vinta è stata quella di aver portato il pubblico tifernate a condividere questa iniziativa e a farla propria. Le persone di Castello e dintorni non si sono fatte spaventare dalle scelte non scontate degli organizzatori (si pensi alle diverse iniziative dedicate quest’anno alla poesia) e anzi hanno deciso di mettersi in ascolto, fidandosi di chi da ormai quattro anni porta in città il meglio del panorama italiano e straniero.
In un clima del genere è naturale che anche gli ospiti trovino un humus adeguato a un discorso che travalichi la semplice promozione dei libri e accettino la sfida prendendo posizione, rivelando le ragioni profonde che stanno alla base del loro mestiere e delle loro scelte: da Riccardo Falcinelli che spiega la copertina di un libro come strumento di un’interazione sociale e quasi politica, oltreché estetica, tra autore e lettore, a Michela Murgia che indirizza volentieri il discorso sui suoi libri (Accabadora o Chirù) sui binari del dibattito civile, della discussione sui rapporti di potere e sull’influenza che la letteratura, in quanto discorso, può esercitare.
Un’ultima menzione in questo non consueto scenario di impegno spetta alle riviste, alfiere di una militanza che per i quattro giorni del festival si è spostata dalle pagine dei blog alle sale degli incontri, confortata dalla sensazione, rara e bellissima, di aver trovato degli interlocutori con cui portare avanti un discorso nei mesi che separano dalla prossima edizione di CaLibro.

Presenze

Due sedie, un pianoforte a coda e un telo bianco: dal palco del Teatro degli Illuminati riparte CaLibro. Sulle sedie sono appoggiati i libri di Filippo Tuena, sul telo appare il volto sorridente e sgranato di Mathias Énard. A causa di un problema familiare lo scrittore francese non ci ha raggiunto a Città di Castello e ha affidato a Skype la sua presenza, seppur per un breve saluto. I limiti della connessione e il fuori sincrono tra le parole e le immagini mi hanno ricordato le sequenze di Francofonia in cui il regista Alexsadr Sokurov tenta, spesso invano, di mettersi in contatto con il capitano di un mercantile, carico di opere d’arte, che sfida la tempesta. I viaggi, le tragedie e gli incontri con cui lo scrittore di Vie dei Ladri e di Zona ha popolato il Mediterraneo si legano così ai destini di un film che continuamente riannoda i fili della storia degli uomini e delle arti, alla ricerca di una cultura europea ancora da costruire.
Durante la serata, la presenza in differita di Énard dialoga con i fantasmi che abitano le pagine dei romanzi di Filippo Tuena. A detta di quest’ultimo gli scrittori sono come rabdomanti che vanno alla ricerca di storie. Ma, in fin dei conti, sono personaggi incompiuti quelli che reclamano la penna dello scrittore. Ecco allora che le pagine dei romanzi di Tuena si popolano di voci spettrali: quelle che raccontano le gesta di illustri pittori (Michelangelo. La grande ombra) o di avventurieri gentiluomini sepolti dai ghiacci dell’Antartide (Ultimo parallelo) e infine quelle che ossessionano i musicisti (Memoriali sul caso Schumann).
In una serata affollata dagli spettri, al sussurrio delle voci fanno eco le “Variazioni del fantasma” che Schumann ricevette in sogno dal fantasma di Schubert.

Sentimenti

Antonio Pascale si affaccia sul proscenio del teatro di Castello da solo, insieme a un leggìo e a una sedia, tanto gli occorre per presentare il secondo atto della sua trilogia letteraria dedicata ai sentimenti.
Non un dialogo autore-critico, non l’illustrazione di trame e personaggi, non un reading, il suo è piuttosto un vero e proprio spettacolo, l’idea quella di far affiorare la riflessione che scorre sotterranea a Le aggravanti sentimentali (Einaudi, 2016). Le domande sottese al libro, scopriamo, sono tante, e attraverso autobiografia, letteratura, filosofia e scienza Pascale procede dilemmatico dall’una all’altra in una quête senza direzioni né risposte certe, forte tuttavia proprio di questa sua natura errabonda. Dalle citazioni sbagliate di Fromm all’amore opportunistico di Adamo ed Eva secondo Twain, dall’Eros come ascesa verso la bellezza in Platone alla dura vita del pavone descritta da Darwin, tutto porta a chiedersi: siamo liberi e padroni dei nostri sentimenti, o sono i sentimenti a dominare noi? La ragione guida le nostre scelte, o altro non è che un ufficio stampa cui demandiamo di giustificarle a posteriori? E tutti quegli schemi astratti, quegli amori ideali e ideali d’amore, che senso hanno, se davvero i sentimenti sono variabili dipendenti?
Forse la chiave sta, quasi banalmente, nella fragilità dell’essere umano che si ribella alla morte e nel cinismo di Schopenhauer per il quale tutti gli intrighi amorosi, in fin dei conti, hanno come scopo la creazione di una nuova generazione: tutto il resto sono solo aggravanti.

Trasversalità

Quattro giorni che hanno coinvolto strati di pubblico eterogeneo. Oltre agli organizzatori tifernati e agli ospiti rinomati, protagonisti sono stati i bimbi dell’asilo e delle elementari che hanno ascoltato ammaliati L’albero azzurro dello scrittore iraniano Amin Hassanzadeh Sharif e Ajdar di Marjane Satrapi nell’accampamento di Palazzo Bufalini, i ragazzi delle scuole superiori che hanno gestito il profili sui social network del festival e assistito alla lezione del grafico Riccardo Falcinelli, i fotografi che hanno partecipato al concorso #Scattidilettura, i ballerini di breakdance della festa “Il rap spiegato ai bianchi”, i lettori di Michela Murgia, gli operatori culturali che gravitano su Mantova, Siena, Milano, Bologna, Firenze e Roma.
Calibro è un festival in espansione!



ARF! – Festival di storie, segni & disegni

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– Laura Timoteo –

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[Inizia la seconda edizione di ARF! Festival di Storie, segni & disegni. Laura Timoteo sarà la nostra inviata stampa durante i tre giorni del Festival e ne scriverà su 404 per una rubrica di prossima apertura, Quella brutta china, dedicata alla nobile arte del fumetto e del disegno]

Da venerdì 20 a domenica 22 maggio La Pelanda, nel quartiere romano di Testaccio, ospiterà la seconda edizione di ARF! il festival che si propone di far tornare protagonista il fumetto: meno cosplayer, videogames, youtuber e più spazio a opere, autori, editori e lettori.

La prima edizione è nata così: cinque professionisti della narrazione per immagini (Gud, Ottokin, S3Keno Piccoli, Mauro Uzzeo e Fabrizio Verrocchi) in cinque mesi e con un budget risicato hanno provato a realizzare un progetto di cui nel settore si sentiva l’esigenza da anni. La risposta è stata sorprendente, sono fioccate le adesioni e tanti autori hanno chiesto di partecipare a proprie spese. Così quella che in principio si profilava come un’edizione beta di soli autori romani è diventata una convention di rilevanza nazionale da diecimila visitatori.

Quest’anno si fanno le cose in grande e noi ci aspettiamo i fuochi d’artificio.

In programma quattro mostre: Hugo Pratt: Incontri e passaggi (ideata e curata dal Museo Hergé di Bruxelles insieme a Patrizia Zanotti), Il cinema secondo Leo Ortolani (prima esposizione di tavole originali di Ortolani a Roma), Rita Petruccioli: Prima le donne e i bambini (omaggio all’illustratrice romana pubblicata in Italia e all’estero), LRNZ: OEO (per ripercorrere la carriera del fumettista, grafico, designer e docente della Scuola romana dei fumetti).

Un’area dedicata alle opportunità professionali, Job Arf!, dove disegnatori, coloristi, letteristi, illustratori, sceneggiatori, traduttori potranno mostrare i propri lavori o sottoporre nuovi progetti alle case editrici durante incontri individuali.

Masterclass a posti limitati dedicate al disegno, al colore e alla sceneggiatura, con docenti del calibro di Gipi, Leo Ortolani, LRNZ, Francesco Artibani,Giacomo Bevilacqua, Roberto Recchioni.

Self Arf!, uno spazio, a ingresso gratuito, riservato alle autoproduzioni con la mostra Ascendente indipendente, gli stand di tredici realtà editoriali e il bookshop gestito dalla libreria Scripta Manent.

Arf! Kids, l’area dove i più piccoli potranno partecipare a laboratori e letture animate.

E infine una serie di incontri in cui, tra le altre cose, si parlerà di diritto di satira (con gli autori di Quando c’era LVI e i vignettisti di il Vernacoliere, il manifesto, il Fatto Quotidiano, libero veleno); di autoproduzione e fumetti indie (con S3Keno Piccoli, maicol&mirco, Ratigher, Samuel Daveti, Martoz e Marco Tavarnesi); di grandi autrici di fumetti e sessismo (analizzando l’incredibile caso del Grand Prix di Angoulême); di graphic journalism (con Marco Corona, Marco Rizzo e Alessio Spataro); di Lo chiamavano Jeeg Robot come atto d’amore verso il fumetto (con Gabriele Mainetti, Nicola Guaglianone, Menotti, Roberto Recchioni, Giorgio Pontrelli e Stefano Simeone); di Andrea Pazienza (in quello che sarebbe stato il suo sessantesimo compleanno) [qui il programma completo].

Ovviamente non mancheranno le sessioni di dediche, il torneo di Bruti (gioco di carte ideato e disegnato da Gipi) e, per i più coraggiosi, la fila domenicale allo stand Bao Publishing per il firmacopie di Kobane Calling con Zerocalcare.

Ci vediamo alla Pelanda. «Con lo sguardo dritto e aperto ARFuturo!»

 


Laura Timoteo è nata nella città dello Strega e si è laureata in Letteratura italiana contemporanea alla Sapienza. Prova a campare leggendo, correggendo, impaginando libri e appena le cose si mettono male si consola con la cioccolata. Se è vero quanto dicono sulla crisi del mercato librario italiano rischia di mettere su un bel po’ di chili nei prossimi anni.


Roma è ARFamata di fumetti

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– Laura Timoteo –
– con una illustrazione di Anna Pintarelli-

[Dal 20 al 22 maggio Laura Timoteo è stata all’ ARF! Festival di Storie, Segni& Disegni a Roma. Ecco il racconto di cosa ha visto, letto e sentito]

Un altro Arf! è passato, tenendo fede alle aspettative, deliziandoci, divertendoci, incuriosendoci, irritandoci e a volte anche annoiandoci a morte. Perché questo festival è una grande famiglia e, come tale, è decisamente imperfetto ma anche orgogliosamente accogliente (se si tralascia il prezzo del biglietto e delle masterclass… forse un po’ altino).
Le menti dietro a tutto questo, gli arfers, sono cinque amici e colleghi romani: Gud, S3Keno Piccoli, Mauro Uzzeo, Ottokin e Fabrizio Verrocchi. La loro impronta è ovunque: Gud anima l’area kids, Uzzeo sbuca in un panel su due, e troppo spesso si ha la sensazione che anche gli ospiti chiamati a intervenire in sala incontri siano stati scelti dagli organizzatori più per conoscenza e affetto reciproco, che per le reali capacità di esprimere considerazioni ragguardevoli sul tema in questione. Eppure proprio questa cordialità di fondo (che spesso sfocia in cameratismo) mentre preclude delle possibilità inaspettatamente ne apre delle altre.

All’Arf! infatti non si va per mettersi in mostra e fare atto di presenza. Tutti (autori, lettori, editori) sono lì per imparare, confrontarsi e scoprire cose nuove. L’assunto di base è che gli astanti condividono almeno una passione e, con questa, contribuiscono a far vivere e prosperare il fumetto. L’aria di casa, l’atmosfera intima e rilassata sono funzionali allo scopo: favorire l’interazione tra appassionati, professionisti del fumetto e aspiranti tali. Instaurare un dialogo costruttivo, come nel migliore dei festival professionali.
L’impressione allora è che i difetti dell’Arf! in fondo non siano che l’altra faccia dei suoi pregi. Se il festival riuscirà a difendere la propria genuinità senza fare di essa un limite, allora esploderà come una bomba. In questo sottile equilibrio risiede tutto il potenziale rivoluzionario dell’Arf!
Ma ora veniamo al resoconto dei fatti, con il mio personalissimo (quindi soggettivo e incompleto) elenco dei panel migliori e peggiori del festival.

Cosa ricorderò.

La distanza da Angoulême

Quello di Angoulême, dal 1974, è il più prestigioso festival europeo dedicato al fumetto, ma in quarantatré anni il suo Grand Prix è stato assegnato a una donna una volta sola. Anche semplicemente scorrendo le liste dei candidati o delle commissioni giudicatrici si nota una presenza femminile bassissima. Per questo lo scorso gennaio, appena sono stati annunciati i trenta candidati al premio (tutti uomini), il Collettivo delle autrici di fumetti contro il sessismo, nato nel 2015, ha proposto di boicottarlo. La pioggia di adesioni (anche maschili) ha acceso i riflettori sulla questione e innescato un dibattito che è ancora vivace, come testimoniato dal panel.
La fumettista Julie Maroh, tra le fondatrici del collettivo, con precisione e lucidità ha ripercorso la vicenda, constatando come spesso ambienti istituzionali e festival internazionali siano scollati dall’attualità, perché se quarant’anni fa fare fumetti poteva forse essere cosa da uomini, la generazione nata tra gli anni Ottanta e Novanta (che ora ha venticinque, trent’anni) in termini numerici ha conosciuto un’assoluta parità di genere.
Mentre gli italiani divagavano verso gli anni Settanta (quando le fumettiste erano poche ma potevano fare quello che gli pareva), rilanciavano i soliti discorsi su quanto siano sconvenienti le quote rosa (perché noi non vogliamo certo contentini), o azzardavano addirittura che forse noi siamo così avanti che tra un po’ dovremo parlare di quote azzurre… Mentre io ero lì a domandarmi sulla base di quale sorteggio avessero selezionato i partecipanti all’incontro… Ecco che Julie Maroh riprendeva la parola per regalarmi il momento più alto del festival, incorniciato da un aforisma semplice quanto efficace: “Non otterremo niente senza chiedere”.
Perché, in quello dei fumetti come in altri ambiti, per troppo tempo siamo state brave, abbiamo fatto il nostro mestiere per bene, rispettando tutte le regole, e ci siamo scontrate con una barriera invisibile che ci ha sistematicamente impedito di raggiungere certi traguardi. Ora non è più tempo di aspettare in silenzio che i nostri meriti siano riconosciuti. Dobbiamo pretendere di contare qualcosa.

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Illustrazione di Anna Pintarelli

Diritto di satira, rovescio di replica

Panel che prometteva scintille e come ogni festa che conta aveva pure l’imbucato (se è vero quanto dichiarato da Pollicelli a Il Foglio, e cioè che lui lì si era autoinvitato). Invece per buona parte è stato parecchio bon ton, con i convenuti tutti d’accordo sull’importanza di distinguere tra satira e comicità; sugli svantaggi che comporta la diffusione via web, dove vengono scambiate per satira delle semplici battute (Gipi: «Ai tempi dei social l’ironia è una piaga sociale»); su quanto la crisi della politica e della passione civica, e la conseguente elaborazione di nuovi linguaggi comunicativi da parte del potere (si pensi al Razzi originale che fa più ridere di qualunque caricatura), impongano anche agli autori satirici la necessità di reinventarsi e trovare nuove formule. Ma improvvisamente sul finale si è accesa la discussione tra Daniele Fabbri e Giuseppe Pollicelli (qui i precedenti). Materia del contendere è stata la blasfemia. Mentre il primo sottolineava il bisogno di una satira religiosa che tocchi la morale cattolica dominante, e rivendicava il diritto di bestemmiare (perché, nonostante l’evidente svuotamento semantico, la bestemmia costituisce un grande tabù), Pollicelli rimproverava ai colleghi di non fare mai satira sulle minoranze religiose, e in particolare sull’Islam, perché spaventati dal rischio di eventuali attentati. E dunque come si è conclusa la diatriba? Con una scena che resterà negli annali del festival: Fabbri ha stampato un bacio sulle labbra di Gipi, che con la maglietta della Democrazia Cristiana vestiva i panni dell’’uomo di centro’. Insomma anche stavolta l’amore ha vinto sull’invidia e sull’odio. (O a vincere è stato semplicemente l’opportunismo?)

Cosa, invece, spero di dimenticare presto.

Processo ai cinecomics

Prendete sette maschi italici tra i trenta e i cinquant’anni. Seduti in un qualunque Bar dello Sport. L’argomento del giorno sono i film tratti dai fumetti. Quali prenderanno in considerazione? Solo quelli Marvel e DC Comics, naturalmente. Quale sarà l’attività preferita? Eleggere il capolavoro (Guardiani della galassia), stigmatizzare gli inguardabili (L’uomo d’acciaio e I fantastici quattro), e a sostegno della propria tesi citare una serie di scene altamente testosteroniche. Il verdetto finale? Con grande plauso del pubblico si può decretare che la Marvel vince sempre (perché come riesce a coinvolgerci lei nessuna).
Ecco, il panel è stato esattamente così.
Se poi considerate che da tempo ho fatto mia la definizione di«porno a effetti speciali» di D.F.W. e sull’argomento ho trovato interessanti le affermazioni di Steven Spielberg («Abbiamo visto finire il cinema western, e arriverà un tempo in cui vedremo il cinema di supereroi fare la stessa fine») e LRNZ («Non credo che certi abomini industriali siano eterni, perché che senso avrebbe continuare a proporre all’infinito i vari supereroi con tutti i loro reboot?»), potete immaginare con quanto trasporto abbia seguito la discussione.

La moltitudine di Paz

Per festeggiare i sessant’anni dalla nascita di Andrea Pazienza niente è meglio che qualche aneddoto di vita privata (magari sul Paz geloso della sorella da vero uomo del Sud), un po’ di sana nostalgia dei mitici anni Settanta, Antonello Vigliaroli in collegamento Skype da San Severo, e una bella carrellata di testimonianze dai miracolati, folgorati dal genio. Su tutte, svetta quella di Sio (quota giovani, classe 1988… coincidenze della vita, proprio l’anno in cui il nostro ci ha lasciati) che ha conosciuto Pazienza navigando su internet, perché prima reperire i suoi fumetti era difficilissimo, mica come adesso che grazie all’ultima iniziativa editoriale di Repubblica e l’Espresso possiamo godere dell’opera completa dell’artista, diventato leggenda, semplicemente recandoci dal nostro edicolante di fiducia, venti volumi a dieci euro l’uno. Stavolta è stato un filmato del 1983, in cui Pazienza legge una sua storiella, a destarmi dal torpore e risollevare le sorti di un panel che si candidava a essere il più retorico e buonista di sempre.

…E poi cos’altro ho visto?

Lo stand Bao Publishing che in confronto agli altri sembrava megagalattico (un sentiero luminoso vi aiuterà nella localizzazione delle uscite di emergenza più vicine a voi…). Gipi che telecronacava divertitissimo lo primo torneo de li Bruti. Bianca Bagnarelli (co-fondatrice di Inuit e Delebile) che ritirava il premio Lorenzo Bartoli alla miglior promessa del fumetto italiano. Ratigher e Gabriele Di Fazio che presentavano la Flag Press (che presto pubblicherà Manuele Fior, Ruppert & Mulot, Dash Shaw e ai suoi autori darà il 25 percento di ogni vendita). Leo Ortolani che lanciava un appello: «Sono incattivito dallo stare sempre in casa a scrivere. Chiudete Rat-Man, salvate un’anima». La sala incontri che si faceva sempre più calda. Paolo Bacilieri che non smetteva mai di disegnare (scommetto che ha fatto più dediche lui che Zerocalcare). Fumettisti più o meno emergenti che mostravano le loro tavole a Gipi e con occhi imbambolati ascoltavano i suoi consigli. Rita Petruccioli che spiegava perché per lei il fumetto è una cosa più complessa rispetto all’illustrazione. LRNZ (pronuncia ellennerrezeta, ma per gli amici anche Lorenz) che chiariva perché non gli piacciono né i geek né i nerd. I punti ristoro che offrivano cibo notevolmente superiore alla media. Sio che dimostrava come effettivamente tutti possano fare fumetti. La sedia di Maicol & Mirco che invece era sempre vuota (scommetto che loro hanno fatto meno dediche di tutti). Traduttori che, negli articoli sui loro lavori, lamentavano di venir citati solo per le colpe e mai per i meriti. Riccardo Corbò che rispondeva al cellulare mentre moderava il panel sulla traduzione di fumetti, a microfono acceso. Marco Tavarnesi che elencava i vantaggi dell’autarchia nell’editoria. I banconi della Bao Publishing che domenica sera erano mezzi vuoti come quelli dei supermercati romani durante la nevicata del 2012.
E sullo sguardo di tutti quella sensazione di trovarsi a proprio agio, tra amici, in un luogo familiare dove alla fine i pregi prevalgono sulle debolezze e le ingenuità.
Resta il ricordo di un festival riuscito e la certezza che, accanto al Romics (in preda al vortice dei videogame, cosplayer, giochi di ruolo, gadget) e al Crack! (validissimo proprio in virtù della sua parzialità), l’Arf! si è affermato come uno degli eventi romani più importanti del settore, un’altra indispensabile tessera del puzzle.


Laura Timoteo è nata nella città dello Strega e si è laureata in Letteratura italiana contemporanea alla Sapienza. Prova a campare leggendo, correggendo, impaginando libri e appena le cose si mettono male si consola con la cioccolata. Se è vero quanto dicono sulla crisi del mercato librario italiano rischia di mettere su un bel po’ di chili nei prossimi anni.


[Quella Brutta China] Un incontro tra vecchi amici: su “Catarsi” di Luz

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 – Celeste Bronzetti –

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[404 inaugura oggi Quella brutta china, focus dedicato all’arte del fumetto, del disegno e dell’illustrazione. La rubrica raccoglierà recensioni, saggi, reportage, interviste, segnalazioni. Per collaborare basta inviare una mail a 404online@gmail.com]

Maggio 2015. Cinque mesi dopo il massacro di Charlie Hebdo, Luz, disegnatore del periodico e superstite casuale della strage, annunciava la sua decisione di lasciare il giornale a fine settembre per «ricostruirsi» e «riprendere il controllo della sua vita», come spiega in un intervista a Libé[1]. Proprio in quei giorni, usciva Catharsis, un libro in cui Luz si mette a nudo, apre le porte della sua vita privata e interiore e ci racconta il travaglio artistico e esistenziale dei mesi dopo l’evento che ha indelebilmente macchiato la sua esistenza. Catharsis è il racconto di un ritorno alla vita e al disegno, ma soprattutto del cammino febbricitante attraversato dopo quella grigia mattina d’inizio gennaio.

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“Mi racconti ciò che ha visto.” “Posso avere un foglio e una matita?” “Certo. Faccia pure con calma.”

C’è qualcosa di tremendamente fisico nel disegno di Luz, qualcosa che si fa corpo e materia a ogni curva, c’è una capacità di dare contorni ma soprattutto corpo a concetti immensi come l’assurdità della vita e della morte, l’ingiustizia, lo sradicamento. Il risultato non è una graphic novel, non è un reportage né una semplice testimonianza autobiografica, non è nemmeno una raccolta di racconti perché il legame tra le sue parti è troppo forte per poterle definire dei racconti indipendenti. Siamo di fronte a una di quelle opere che sembrano naturalmente precisarsi più in base a ciò che non sono. Catharsis racchiude in sé un groviglio di aneddoti, scene di vita intima, pensieri e sogni che hanno in comune una cosa in particolare: l’urgenza di essere raccontati. Catharsis non è intero, assomiglia più à un insieme di frammenti che cercano l’unità.

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“A dire il vero non ho visto granché…”

L’urgenza del disegno

Sin dalle prime pagine di Catharsis, una delle cose che colpisce di più è il bisogno improrogabile di Luz di materializzare la sua angoscia: gli autoritratti si moltiplicano, le smorfie del viso, la postura di certe parti del suo corpo sono disegnate con un tratto impreciso, nervoso, come in un gesto impulsivo e incontrollato del corpo che ha bisogno di far uscire un malessere sceso fin troppo in profondità. Una pagina dopo l’atra, Luz sembra risvegliarsi da un brutto sogno ricorrente e ossessivo, ogni volta mosso dall’impellente bisogno di raccontarlo, come se il racconto potesse sdrammatizzarlo, farlo rientrare nei confini leggeri e fumosi di un divagare notturno, nei tratti grigio scuri e abbozzati di uno schizzo innocente. Il libro è una composizione di sezioni, paragrafi, se fosse una canzone tutte le sue parti sarebbero probabilmente delle strofe, in cui i confini tra la testimonianza autobiografica e l’allucinazione si mescolano costantemente.

Leggere Catharsis comporta un’immersione in un universo ossessivo, in cui i tentacoli emotivi di un trauma si ramificano tutt’intorno all’opera. Il disegno passa da un estremo all’altro, da viscerale si fa concetto: Luz si mette in scena mentre si lascia invadere dai suoi fantasmi, mentre diventa loro ostaggio, e dopo essersi lasciato invadere li riversa sulla pagina, come un corpo estraneo, in un disegno illuminato ma disconnesso. A tratti l‘angoscia diventa poesia e sono spesso momenti in cui non c’è spazio per le parole, il disegno e il movimento che da esso si genera occupano tutta la pagina, diventano musica che dà corpo e vita. È quello che succede nella sezione «tak, tak, tak» in cui dei corpi armati e appesantiti dal fardello storico che portano diventano sempre più leggeri e stilizzati, fino a divenire figure danzanti di un’eleganza sublime, attraverso un’incantevole transizione figurativa.

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E poi c’è il rosso, vera presenza carica di significato dell’opera. Unico colore delle tavole insieme a qualche tocco di blu, il rosso occupa un ruolo ambivalente e centrale nel percorso catartico di Luz. Inizialmente chiaro riferimento al sangue versato nella strage del 7 gennaio, il rosso macchia più avanti di rabbia e follia i ricordi di un uomo nudo e paralizzato dalla violenza dell’ingiustizia. Luz sembra voler espiare la colpa di esistere ancora, di non poter perdonare, la colpa di essere giunto qualche minuto dopo la strage, di aver fatto l’amore al risveglio la mattina del suo compleanno, in quel 7 gennaio freddo che sembrava un giorno come tanti altri.

Ma il rosso diventa anche la via della speranza, il colore della passione e dell’amore per una donna che lo sostiene perseverante e innamorata, Camille, sempre al suo fianco, da sempre e per sempre, come in quella mattina, vestita di un cappotto blu e un filo leggero di rossetto.

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“Non so se riuscirai a entrare amore mio… è un massacro… un massacro” “Merda… Arrivo lo stesso, non sarò lontano…” “Sono qui, amore mio, sono qui” “Ti amo, cazzo!”

Visibilità ridotta

Tutto è sensoriale in Catharsis, anche quando i sensi sembrano ottenebrati, confusi. Uno dei frammenti più poetici dell’opera si svolge in una serata nebbiosa in cui tutto si cancella in una sorta di evanescenza opaca. Gli acquerelli scuri danno una consistenza spenta alla nebbia e l’impossibilità di distinguere chiaramente i tratti delle cose in questa serata tetra, aggiunge una pesantezza quasi paradossale all’acquarello. Il colore vaporoso crea uno schermo che impedisce l’affermarsi delle forme, dei colori, come se tutto stesse sparendo, come se la pagina ridiventasse bianca. Con un abile gioco di contrasti, Luz ci rivela in queste stesse pagine qualcosa di fondamentale della sua poetica e della sua arte: come su un’oasi sospesa in mezzo alla nebbia, un uomo seduto in un bar ride a squarcia gola leggendo Idées Noires di Franquin. Luz capisce in quel momento di aver sempre aspirato a parlare a quel tipo di lettore, a qualcuno che riesce a ridere in mezzo alla nebbia.

Il centro nevralgico di Catharsis sembra trovarsi proprio in questa tensione tra l’angoscia sconfinata della pagina bianca e l’energia incontenibile che si può liberare da un nuovo inizio. Il riso esiste ancora in potenza, come una vecchia abitudine che non si perde mai del tutto, ma Luz sembra temere che non possa avere più la stessa potente irriverenza di una volta: Catharsis sembra uno slancio amaro verso un domani che fa paura, un riso strozzato nel cuore di un pianto isterico, una voglia violenta di riconoscersi, nella nebbia, uno sfrenato desiderio di sopravvivere.

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“C’era una volta un uomo nudo come un verme, diventato capace di guardare solo nella penombra, la notte come il giorno.”

 

Chi è Luz, chi è Charlie

Prima di Catharsis, ma soprattutto prima del 7 gennaio 2015, l’immagine di Luz coincideva con quella di un giovane brillante disegnatore, conoscitore appassionato di musica. Luz scriveva e disegnava per Charlie Hebdo, di cui condivideva soprattutto un punto di partenza, una visione del mondo. Per spingersi un po’ più in là e leggere oltre l’immagine di un’opera che parla del dramma di un sopravvissuto, è interessante addentrarsi nell’universo di Charlie: tristemente riconosciute in tutto il mondo, le prime pagine del giornale sono oggi molto spesso oggetto dei commenti di un pubblico eterogeneo e planetario, spesso molto distante dal lettore originario di Charlie Hebdo. Ma chi è questo lettore? Chi è Charlie Hebdo?

Charlie nasce e vive in una tradizione libertaria e anarchica francese capace di spingere il libero pensiero e la libera espressione fino al confine della legalità. Su questo terreno la provocazione diventa un gioco e la caricatura un’enormità esplosiva che vuole mettere alla prova l’umorismo di cittadini che si definiscono liberi. A Charlie Hebdo si è da sempre convinti che se si hanno delle libertà è per poterne usufruire fino in fondo, una repubblica laica non può decidere al posto dei cittadini quando un oggetto è sacro e quando non lo è, questo è compito delle religioni. Non possono esistere atti di blasfemia nel territorio della cittadinanza francese, perché non c’è nessuna divinità da rispettare, tantomeno oggetti intoccabili. E questo vale per tutti i simboli, anche quelli della Repubblica stessa: si pensi all’ironico appello di Charb a ‘oltraggiare’ l’inno o la bandiera francese in risposta al decreto che introduceva il concetto di reato di «vilipendio alla bandiera o a altro emblema dello stato». Esprimersi contro gli islamisti radicali non è sinonimo di razzismo, ma una denuncia del mancato rispetto dei diritti fondamentali, invitare gli artisti a sporcare o strappare la bandiera francese non è un invito all’odio razziale, ma un appello beffardo a liberarsi di un oggetto materiale che può diventare un simbolo pericoloso.

Si è parlato spesso d’irresponsabilità riguardo a Charlie Hebdo : muovendosi nel territorio dell’attualità, i disegni di Charb, Cabu e Luz sono stati letti molte volte come l’ingiuriosa volontà di provocare il fuoco in una zona già segnalata per l’alto pericolo d’incendi. Ai confini della legalità, le vignette di Charb e i suoi compagni sono state denunciate a più riprese per ingiuria, diffamazione o incitazione all’odio razziale : da sempre, la principale attività del giornale è muoversi intorno ai limiti delle libertà di stampa per sfidarne le zone d’ombra e mettere alla prova la democrazia. In Charlie Hebdo si concentrano due tensioni opposte tipiche delle sinistre radicali : una fiducia di base nelle azioni della giustizia repubblicana e un bisogno costante e provocatorio di sfidare i vincoli e i fondamenti liberticidi di ogni legislazione.

Una delle battaglie principali dei redattori di Charlie Hebdo consiste nel ribadire che la costituzione francese distingue in modo netto la sfera pubblica e laica in cui si muove il cittadino, da quella privata, in cui l’individuo è libero di credere e professare la propria religione, nutrirsi e vestirsi come desidera. Nella sfera pubblica parlare dell’esistenza di un Dio, accusare d’iconoclastia, proibire l’uso di certi alimenti o vestiti non ha alcun senso poiché si tratta di nozioni proprie alla dimensione privata o religiosa dell’individuo. Le prime pagine di Charlie Hebdo creano spesso forte indignazione quando sfidano la zona di demarcazione tra il pubblico e il privato, perché è lì che si trovano dei terreni umani complessi, difficilmente controllabili dalla legge come la soggettività, la percezione di sé e dell’altro, la sensibilità.

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“Oh, merda!” “Ha ancora disegnato Maometto!” “Eeh? Ma non è Maometto, è una macchia” “Ti vieto di paragonare Maometto a una macchia, miscredente!” “Ah, non, non ricominciamo mica? Dove lo vede Maometto qui?!” “Non ho il diritto di guardare, non ho il diritto di guardare!”

Questo è il territorio di Charlie Hebdo, questo è il clima intellettuale di cui si sono nutriti Luz e i suoi compagni che hanno perso la vita negli attentati di gennaio 2015. La nebbia di Catharsis è la nebbia in cui si ritrova Luz di fronte a un enorme tragico paradosso, la nebbia della ragione di fronte alla strage di un gruppo di amici, morti per aver giocato con la libertà e contro gli assolutismi.

Catharsis penetra con umiltà nella vita privata di un uomo interrotto, dà voce a idee sommerse e confuse e alla totale mancanza di senso in cui Luz si sente soffocare dopo gli attentati. Nella nebbia s’intravvedono elementi di continuità e prossimità all’universo Charlie da cui proviene: Catharsis è un’immagine di coerenza intellettuale, non è un capolavoro e mai aspira a esserlo, è un urlo disperato ma mai patetico, è l’eco lontana di una risata impudente, è un corpo a corpo quotidiano contro il dolore e l’horror vacui della pagina bianca, è il gesto estremo di uomo che si riappropria del suo linguaggio dopo aver attraversato il buio e il silenzio.


Celeste Bronzetti ha studiato letteratura tra Italia e Francia e si è specializzata in traduzione e letterature comparate. Oggi lavora a Parigi come project manager nell’industria della cultura digitale.


[Quella Brutta China] “Non sapevo che si potesse fare!”: una conversazione a cena con Martoz

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 – Elisa Albanesi, Marta Bandini, Elettra Bottazzi –

 – Intervista e introduzione a cura di Elisa Albanesi –

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Dopo il successo ottenuto con Remi Tot in Stunt (2015), edito da MalEdizioni, torna con una nuova pubblicazione, uno dei talenti emergenti del fumetto italiano: con Amore di lontano (Canicola Edizioni) Martoz, al secolo Alessandro Martorelli, riprende e omaggia I fiori blu di Raymond Queneau e la Canzone dell’amore di lontano di Jaufré Rudel creando una storia complessa, talune volte criptica, costruita attraverso la ripresa del formalismo cubista, con vere e proprie citazioni di quadri-icone dell’arte contemporanea.
Due presenti, due dimensioni, due personaggi: da una parte lo ‘scorpione’ Antares, il romantico quanto letale eroe cortese, partito insieme alla Seconda Crociata con il solo scopo di incontrare la donna amata di cui ha solo sentito parlare; dall’altra Jaf, l’uomo contemporaneo immerso in una realtà vacua che, privo di memoria, trascorre l’esistenza assecondando la sua satiriasi e condividendo con il cavaliere medievale protagonista dei suoi sogni, la febbrile ricerca di Mila e di quel tanto agognato “giorno senza morte”.
Le tavole originali di Amore di lontano sono state al centro della prima personale romana di Martoz presentata dalla galleria Parione9 e conclusasi il 6 novembre scorso. Insieme ai disegni sono stati esposti anche i ritratti dei protagonisti, modellati dallo scultore Mauro Pietro Gandini. In passato, mi ero imbattuta in una tela e in alcuni disegni di Martoz. Da subito avevo apprezzato la libertà con cui alterava l’anatomia umana, la spessa e aguzza linea di contorno, la ricerca di una cifra riconoscibile e, al contempo, la conoscenza precisa di quanto accaduto nelle altre arti nel corso del Novecento.

Di interviste, in questi due mesi, ne sono state fatte tante e per questo ho deciso di optare per una chiacchierata – quanto segue ne è una semifedele trascrizione – in compagnia delle due galleriste che hanno presentato l’originale lavoro di questo artista. Tra gli intenti, c’è anche quello di mostrare le dinamiche che intercorrono tra due figure, quello dell’artista e quello del gallerista, all’interno di una galleria in crescita e intenta a costruire una nuova realtà. Non mentirò a riguardo: con Marta Bandini ed Elettra Bottazzi c’è prima di tutto un rapporto di amicizia e posso affermare con convinzione che, se ne avessi il potere, le inserirei senza esitazione in un eventuale comitato di accoglienza terrestre nel caso di un’invasione aliena. La loro capacità di creare un rapporto personale con l’artista, ha influito sulla mia scelta di coinvolgerle in questa intervista. Con subdoli escamotage, come quello di far ubriacare l’artista, siamo riuscite nell’intento di farci raccontare da Martoz aneddoti e informazioni utili alla lettura del suo nuovo fumetto. Per ragioni di paraculaggine e per timore di essere linciata, confesso di aver eliminato dalla trascrizione svariati elogi alla spesa della domenica, insulti vari a politici, nonché aneddoti riguardanti attacchi di scimmie a Bali e una bizzarra quanto inaspettata citazione di Osho.

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Martoz: taglio il pane?
Elettra: no, no sei ospite.
Martoz: porto questo allora. Sta andando il registratore?
Elettra: Marta hai messo il timer per la pasta?
Elisa (al bagno): ho messo il sale!
Marta: il timer, non il sale! Comunque Elisa ha già messo il sale!
Elettra: tu l’hai messo il timer?
Marta: no…
Elettra: te pareva. È pronta?
Marta: aspe’…
Elettra: è pronta, è pronta, è pronta, si vede dalla morbidezza! Allora, dammi il piatto Ale!
Martoz: prima le signore.
Elettra: prima gli ospiti…
Martoz: allora lei (Elisa) anche è un’ospite.
Elettra: ma lei ha il riso in bianco come i malati.
Elisa: con questo riso ho perso qualsiasi diritto di precedenza. Non sono né un’ospite né una signora.
Martoz: io adoro il riso. Quando ero piccolo andavo al ristorante giapponese con mio padre e prendevo solo riso in bianco.
Elisa: pensa quanto erano contenti quelli del ristorante!
Elettra: qui c’è il formaggio. Ah! E ho infilato le dita dentro i bicchieri.
Martoz: grave, grave, per me l’intervista può finire qui.
Elettra: io non parlo.
Martoz: guarda che è già acceso il registratore. È per questo che stiamo parlando male di tutti.
Elettra: ah! Non te l’ho detto! Domenica, in galleria, entra questo signore che mi chiede per quanto tempo può rimanere a guardare le tavole. Io gli dico che per me può rimanere quanto vuole, solo che alle 20 chiudo. Mi siedo e dopo un po’, mentre stava uscendo, mi si avvicina e mi fa: io mi sento proprio come Jaf. Io sono Jaf.
Martoz: madonna, ma è uscito da un film!
Elettra: ma tu lo sai che prima o poi devi fare un fumetto con una protagonista donna, vero? O l’hai già fatto?

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Martoz: ti dico una cosa molto seria. Per usare una protagonista donna c’è bisogno di più maturità. Per cui, magari tra qualche anno.
Elettra: ma perché non è dello stesso sesso o in generale è una cosa che…
Martoz: perché io sono una persona molto emotiva. Sono un autore molto emotivo. Quindi all’inizio, quando gestisci meno il processo di elaborazione di un fumetto e, di conseguenza, lo fai in maniera più intuitiva, ti viene più spontaneo che la voce di dentro sia maschile. Quando usi un metodo intuitivo di elaborazione della storia e dei testi, ti viene proprio spontaneo pensarlo attraverso di te, per cui in un certo senso tutti i fumetti che ho fatto sono autobiografici. Ovviamente non in senso stretto ma in senso emotivo.
Elettra: e quindi nel caso tu volessi fare un fumetto in cui impersoni un bambino, in che modo questo cambierebbe la storia?
Martoz: la cosa più divertente, secondo me, di quando hai acquisito una certa padronanza del mezzo, è guardare con gli occhi di qualcun altro, come una donna, un bambino, un cane o un robot. Fare un fumetto in cui il protagonista non è qualcuno che tu potresti essere, mi diverte, è rinfrescante.
Elisa: ma la storia prima la scrivi e poi la disegni? O c’è proprio una fase di scrittura?
Martoz: elaboro tutto, mentalmente, per mesi e mesi. Per esempio ora sto scrivendo una nuova storia e immagino le varie situazioni mentre vado in bicicletta.
Elisa: per cui prima c’è la fase in cui ti limiti a immaginare.
Martoz: sì, poi a un certo punto, per comunicarlo all’editore, scrivo una pagina in cui riassumo la trama e vado per punti chiave. Per esempio ieri ho fatto un giro in bici che dovevo fare dei giretti per lavoro…
Marta: la bicicletta è fondamentale per lui.
Martoz: sì la bicicletta è fondamentale, io ci credo molto al fatto che la mia mente si attiva mentre mi muovo. Cioè quando io sto fermo, si spegne. Se mi metto seduto e dico: “ora mi invento un fumetto”, non ci riesco. Sono peripatetico.
Marta: comunque anche di Amore di lontano, hai detto che l’hai pensato in movimento, in metro no?
Martoz: l’ho pensato in autobus, sì.
Elisa: ma su che autobus?
Martoz: sul 446.
Elisa: andare in bicicletta a Roma comunque è tosta.
Martoz: sì, sì è tosta.
Elisa: mia madre non mi faceva mai uscire dal cancello di casa per cui per me la bicicletta non è mai stata una cosa molto divertente. Giravo in tondo dentro al giardino di casa. Non capivo proprio il senso della bicicletta.
Martoz: invece il movimento mi stimola. La nuova storia che sto scrivendo è abbastanza complessa però è tutta nella mia testa e siccome a novembre dovrò presentarla, dovrò inevitabilmente scriverla.
Elisa: però da che prendi spunto? E perché scegli una storia al posto di un’altra?
Martoz: mi hai ricordato che mi sono dimenticato una storia bellissima. In genere il gancio è emotivo, succede qualcosa di specifico che mi fa immaginare qualcosa. Ma non è una cosa volontaria cioè esiste per esempio il fumetto di realtà che si occupa di guerre, ecc. in cui, se lo vuoi fare in maniera seria, sei costretto a fare qualcosa di realistico. Io che, per ora, non faccio fumetto realistico, non ho questo vincolo, non decido cosa fare. Piovono le cose dal cielo, da suggestioni. Per esempio, Amore di lontano è nato anni fa, quando ho visto un servizio sul turismo sessuale e quindi c’era questa cosa del viaggio per raggiungere una donna, oggi, nel nostro tempo e nel contempo, a scuola, stavo studiando la poesia francese del Medioevo e, in particolare, questo Jaufré Rudel che partiva alla ricerca di una donna sconosciuta e che, di fatto, faceva la stessa cosa. Per cui ho voluto fare una reinterpretazione del viaggio di Jaufré Rudel nel presente. E mi piaceva questo contrasto tra altissimo e bassissimo. La cosa più alta che puoi fare è morire partecipando a una crociata per incontrare una donna che non conosci e della quale ti sei innamorato. Dall’altra parte, invece, c’è la cosa più bassa che si può fare, prendere un aereo e andare in Tailandia. Sono due cose talmente contrastanti che mi interessava tantissimo questa analogia, perché in realtà è esattamente lo stesso schema e così in autobus ho immaginato questa cosa. L’ho tenuta in mente per anni e poi ci sono state delle aggiunte.
Elisa: si vede perché è complesso, ci sono tantissimi dettagli… a un certo punto ho chiamato Marta e le ho detto: «Ma li vedo io i richiami a Picasso, o sono pazza?». Mi è sembrato ci fossero molte citazioni.

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Martoz: sì, diciamo che a volte hanno un significato nella storia. A volte hanno un valore narrativo, altre volte sono nascoste nei paesaggi.
Elettra: ti faccio una domanda da gallerista: se io e Marta, il prossimo anno, ti proponiamo un’altra personale slegata dal fumetto, tu costruiresti una storia usando solo un certo numero di quadri, tavole, compensati, così o non ti ritroveresti come nel fumetto?
Martoz: no, certo. Cioè tu intendi: raccontare una storia usando singole immagini in cui ognuna è un’opera?
Elettra: esatto. Cioè slegato dal fumetto che comunque è fatto di una serie di pagine, di cose che possono accadere, mentre qui la sintesi sarebbe fondamentale. Poco, diretto, non stampato. Originale. Almeno io, ti ho conosciuto prima come disegnatore e vedendo i tuoi schizzi ho pensato: «E lui chi è?». Mi è piaciuta la mano, il segno, il gesto.
Martoz: c’è un momento in cui il fumetto diventa un limite perché nonostante sia una grandissima opera d’arte – infatti, in questa fase, ho di nuovo un crescente interesse per il fumetto – non deve essere considerato come cinema e letteratura mescolati, perché così facendo lo si considera come un’arte di secondo piano. Non è né cinema né letteratura o non è cinema e letteratura di serie b, è proprio un’altra cosa e basta. E lo diventa nel momento in cui tu inizi a usare le sue potenzialità, facendo cioè quello che puoi fare solo usando il fumetto.
Elisa: l’errore infatti secondo me sta nel cercare di farlo assomigliare a qualcos’altro. Ha una sua tecnica per cui devi semplicemente imparare a usarla nel migliore dei modi, senza fare paragoni. Come spesso faccio io con la pittura.
Eletta: sì, anche se è bello pensare che quasi inconsapevolmente alcune icone dell’arte vanno da qualunque parte a spaziare.
Elisa: sì, anche se per me c’è un problema. Noi pensiamo sempre che la pittura abbia influenzato le altre tecniche. Mentre con più difficoltà senti una riflessione su come le altre tecniche hanno influenzato la pittura.
Martoz: un artista può anche variare con il mezzo. Bob Dylan, per esempio, non solo era un musicista, ma era anche un disegnatore e i suoi disegni sono fichissimi. Suonava, scriveva, disegnava e inoltre è vivo per cui forse dovrei usare il presente. Ma qui il discorso è un altro, il problema è che siamo abituati a vedere il fumetto come a un’imitazione di qualcos’altro. Il grande limite dei fumetti commerciali tipo Tex, è che simulano qualcosa che esiste già nel cinema. Allora perché io devo leggermi Tex quando posso vedermi un western fichissimo? Che poi a me Tex piace molto, per cui è un esempio così, tanto per far capire il discorso.
Elettra: sì, anche perché se mio zio ti sente si incazza.
Martoz: Tex è una versione cinematografica del disegno, cioè è il disegno che vuole essere cinematografico. Che ci può stare, ma se esageri questa cosa, che senso ha? Guardati un film. Il fumetto mi interessa nel momento in cui ti dà qualcosa che solo il fumetto può darti.
Elisa: penso che il punto sia non porsi limiti con il mezzo.
Martoz: infatti sono un paio di anni che sto affrontando la questione dei limiti. In un’altra intervista, Luca Raffaelli mi ha chiesto di rispondere a una domanda per iscritto che sarebbe stata poi pubblicata sulla pagina facebook di Sbam. La domanda era: quali sono i limiti da superare? E io ho risposto che nel mio lavoro cerco sempre di superare i limiti dell’accettabile. Quando lavoro a un fumetto, tutto ciò che credo ammissibile deve essere di volta in volta distrutto per cercare nuove strade. Il sistema di elementi che definisce un lavoro ‘inappuntabile’ deve essere disatteso, mettendo in discussione soprattutto la propria idea del bello. Che vuol dire questo? Io ho studiato con Riccardo Mannelli e lui una volta mi disse una frase che non mi scorderò mai: «Voi venite qui, a fare i vostri disegnini e siete tutti rigidi invece dovete liberarvi perché la cosa che avete sempre in testa, questa frasetta che avete sempre in testa è: “Oddio non sapevo che si potesse fare!” Per cui dalle cose più semplici, tipo disegnare un cazzo, alle cose più complesse come per esempio parlare di guerra, della morte, della violenza, questa frase “non sapevo si potesse fare”, è fondamentale perché in realtà poi la lotta che facciamo ogni giorno è contro noi stessi, per superare i limiti che noi stessi ci imponiamo. Quindi quando mi mettevo a fare un fumetto non sapevo di poterlo fare brutto. Perché non posso fare un fumetto brutto? Per esempio Michel Gondry ha fatto un fumetto (Abbiamo perso la guerra ma non la battaglia pubblicato per la prima volta nel giugno 2013 dalla Bao Publishing) perché si era stufato di inseguire i produttori e quindi ha deciso di disegnarlo. Io l’ho guardato questo fumetto e per me è geniale. È disegnato male pe’ dì male, però è bellissimo lo stesso, nel suo essere brutale.
Marta: oggi è venuta una persona in galleria che aveva letto l’articolo su Il manifesto (vedi l’intervista a Martoz di Virginia Tonfoni) e mi ha detto: «Lui non ha paura di fare una cosa apparentemente brutta».
Elettra: c’è la sproporzione, non c’è armonia…
Marta: ma lui lo apprezzava molto, mi ha detto: «Mi fa capire che c’è una consistenza».
Martoz: in realtà ho tutta una serie di gabbie che non si vedono. Uno pensa «questo sarà apertissimo mentalmente», e in effetti è anche vero, sulle varie questioni della vita.
Elisa: tranne che con il sushi.

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Martoz: però poi in realtà gli artisti che sembrano aperti mentalmente hanno delle fisime incredibili. Come per l’appunto quella del sushi. Ma da piccolo avevo un sacco di fisse gravissime che poi ho risolto nel tempo. Per cui di volta in volta devi abbattere i tuoi limiti perché non lo sai, è una cosa inconscia, ti rendi conto e ti dici: perché no? Per esempio ho fatto un finale alternativo di Remi Tot in Stunt, che era il fumetto precedente, e l’ho fatto alla maniera di Michel Gondry. Ho pensato: ma posso fare una cosa come cazzo mi pare? Perché no? Perché quando fai una cosa ti devi porre dei limiti? Il risultato è stata la ricerca di qualcosa di diverso in cui mettere tutti elementi arbitrari. Per esempio, la prima cosa che dicono alla scuola del fumetto è: non anticipare quanto sta per accadere. Giusto. Fanno ridere quei fumetti degli anni Ottanta, un po’ buonisti, in cui le pistole invece di fare bang fanno pif, con tanto di nuvoletta come se sparassero vapore, e una scritta «adesso gli sparo». Se mi fai vedere che gli stai sparando, non c’è bisogno della didascalia. Quello lo capisco, non voglio essere sciocco. Però in passato avevo paura a inserire il testo, temevo di diventare troppo didascalico. Temevo il narratore, quello presente anche in fumetti tipo Topolino. Volevo cavarmela solo con il disegno, tutto doveva essere chiaro anche senza il narratore, lo consideravo il male. Invece ora no. Voglio inserirlo? E perché no? Se ora voglio scrivere «adesso lui spara», lo faccio e basta. In questo finale alternativo e folle di Remi Tot, a un certo punto, in una scena in cui una tigre si arrotola in una tenda, ho inserito una freccia con una scritta che dice «la tigre si sta rotolando nella tenda». C’è stato un incidente aereo e questa tigre sopravvive e per spiegarlo ho scritto «la tigre sopravvive e rotola nella tenda e per mimesi sfugge alla morte». Non muore perché la morte non la trova, perché la tenda è dello stesso colore. Con il preconcetto che avevo prima, una cosa del genere non poteva succedere perché avevo delle pretese estetiche, perché quando uno è giovane e stupido – e io sono ancora giovane e stupido, ma quando ero ancora più giovane e ancora più stupido – ha la pretesa di voler dimostrare sempre che sa disegnare, per cui soprattutto quando sei alle prime armi, cerchi di dimostrare in ogni vignetta, in ogni illustrazione, che tutto è esteticamente fantastico, perdendo spesso di vista altre cose, come la narrazione e il ritmo. Se ogni tavola viene realizzata alla perfezione, il risultato è talmente pesante che dopo un po’ si sente male il lettore che lo legge e io che lo devo disegnare. Bisogna avere il coraggio di alternare.

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Elettra: ma tu eri quello che stavi tra i banchi, al liceo, a disegnare i professori?
Martoz: uno dei miei professori del liceo è stata una delle persone più importanti della mia vita. Gli ho dedicato Amore di lontano perché è stato lui a raccontarmi di Rudel, che non è nel programma del liceo. Ce lo raccontò in maniera molto emozionante. Mi faceva un sacco di battute su questa cosa del disegno, io facevo le caricature e lui lo sapeva. E’ un personaggio molto strambo, è un omone ma è delicatissimo, cioè di salute era fragilissimo, se prendeva un raffreddore moriva. Un giorno ci raccontò che era svenuto prendendo una storta alla caviglia scendendo da un marciapiede. Ci disse «ho messo un piede in fallo e sono svenuto». Un uomo di due metri. Infatti dicevamo che era come Dante.
Elettra: leggendo un po’ i tuoi fumetti, trovo sempre un filo di ironia intelligente, che riguarda anche il tuo approccio al lavoro.
Martoz: c’è un po’ di irriverenza ogni tanto. L’irriverenza è una reazione alla fatica dell’esistenza, sia nella mia che ci metto nel fare le cose, sia in generale per i temi affrontati, è una reazione. A me piace mescolare l’alto e il basso anche nel riso e nelle conversazioni importanti. Mettendo da parte il ritratto straordinario, penso che l’ironia sia una forma di intelligenza. C’è il sapere matematico, l’empatia e poi l’ironia. Non penso sia un caso che le persone molto intelligenti spesso sono anche ironiche. In generale, ho difficoltà a empatizzare con chi non sa ridere. In Amore di lontano è un’ironia che mi è servita anche a farmi lavorare.
Elettra: stavamo pensando che in questo momento Martoz è onnipresente nel mondo! Hai una mostra a Buenos Aires, Los Angeles e quella a San Pietroburgo. Giusto?
Martoz: contemporaneamente poi! Ma non sono tutte personali. A Los Angeles ho esposte due tavole e a Buenos Aires dieci fatte apposta per l’occasione.
Elettra: e quelle di Buenos Aires di che parlano?
Martoz: è una breve storia di un tizio, di cui non si sa nulla, che porta via da un campo di concentramento post-apocalittico un personaggio in carrozzella, salvandolo. Non è specificato il contesto, diciamo che la cosa divertente è che parlano uno spagnolo un po’ criptico.

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Elettra: te ne andresti mai dall’Italia?
Martoz: sì, certo. L’anno prossimo starò un po’ in Germania, ci andrò ogni mese. Poi non so, mi sto lasciando trasportare dagli eventi. Andrò via per un po’ da Roma per stare un periodo a Milano.
Marta: e starai lì per quanto?
Martoz: in realtà ho bisogno di andare via da Roma per riprendermi un attimo. Sono molto stressato. Ogni volta che esco di casa e devo comprare il giornale, mi devo fare un’ora di bici. Ogni volta che devo fare la spesa, preferisco non mangiare che uscire. Non sto scherzando.
Elisa: sì ti logora.
Martoz: ma non è poi che io voglio abbandonarla, io sono innamorato di Roma.
Marta: no, ma il problema è che è faticosa. Quando hai diversi appuntamenti in diversi luoghi della città, devi capire che puoi farne solo uno. È praticamente impossibile riuscire a incastrarli.
Martoz: Roma è grande e inefficiente, il problema è che, secondo me, non funzionerebbe manco se l’amministrasse San Nicola.
Elettra: politica… hai mai trattato di politica?
Martoz: no, anche se ci sono state occasioni che poi non sono andate in porto. Anche lì, però, si tratta di periodi della vita, è una cosa che ti deve venire da dentro. Se lo fai senza coscienza politica, senza cultura politica, senza informazione reale, quotidiana, sarebbe forzato e, in questo momento, sarebbe fuori dalle mie corde. Mi è capitato di fare vignette politiche, parecchie, pubblicate da solo, senza commissione, magari sul mio profilo facebook. Però non è la mia cifra al momento. Inoltre, più della politica a me interessa l’immersione nella realtà. Faccio un esempio stupido: nel finale alternativo di Remi Tot, che è intriso di realismo, a un certo punto la co-protagonista vede un aereo intento a sganciare bombe a forma di parole che mentre cadono scrivono la parola «pace». Questa è una vignetta muta in mezzo a mille altre e non c’entra quasi niente con la storia, però è un segnale per me che dimostra che mi sto affezionando a determinati temi che in qualche modo ritornano. Nella nuova storia, per esempio, parlo della violenza contro le donne e metaforicamente richiamo la questione dell’infibulazione facendo cucire al protagonista due lati di un fiume, così che possa attraversarlo.
Marta: per me la politica è la connessione che si ha con la realtà. Tu parli del turismo sessuale. Anche quello è la dimostrazione di un occhio, in qualche modo, politico. No?
Martoz: ne parlavo una volta con Eris Edizioni, una piccola casa editrice che ha fatto delle scelte straordinarie sugli autori. Con loro abbiamo affrontato le stesse questioni e siamo giunti a una conclusione: se fai qualcosa di artisticamente valido, vuol dire che fai cultura e, di conseguenza, politica. Per cui facendo dei fumetti come vuoi, fai più politica di uno che fa delle vignette che hanno l’intenzione di essere politiche. Per cui, certe volte, c’è più politica lì dove non c’è intenzione di farla. Quando uno è connesso con il mondo e fa cose oneste, fa politica. Facendo qualcosa di libero fai politica. Ma chi è che mi mette sempre il vino?
Marta: sono io!
Martoz: e infatti vedevo che «sto goccino» non finiva mai!
Elisa: ho preso appunti comunque.
Martoz: sì, infatti, parliamone prima che arrivi l’amaro.
Elisa: domande non lo so, mi sono appuntata delle cose in generale. Per esempio, nel risvolto di copertina de I fiori blu, un altro riferimento fondamentale per Amore di lontano, tradotto in italiano da Italo Calvino, Queneau scrive:

Secondo un celebre apologo cinese, Chuang-tzé sogna d’essere una farfalla: ma chi dice che non sia la farfalla a sognare d’essere Chuang-tzé? E in questo romanzo, è il Duca d’Auge che sogna d’essere Cidrolin o è Cidrolin che sogna d’essere il Duca d’Auge?

E io ho pensato che anche qui si arriva a un punto in cui non si capisce più chi è che sogna l’altro. Per esempio mi piace tantissimo che la prima inquadratura della realtà di Jaf, cioè quella che ci viene presentata come la ‘realtà’, è una situazione urbana piena di lavori in corso. Dà il senso della precarietà assoluta.

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Martoz: allora, hai appena notato una cosa che non aveva notato nessuno cioè che la prima scena è una costruzione, un lavoro in corso. Tutto il fumetto ha un valore simbolico anche se a me piacciono le storie che sono abbastanza emancipate da non avere per forza una morale o una metafora. Un po’ alla Tarantino. Cioè possono esserci cose che non significano proprio niente. Però al contempo mi piace inserire dei simboli, delle situazioni che possono avere un significato e che hanno sempre due o tre livelli: c’è il significato fisico, in quel caso, è un’ambientazione in cui i personaggi stanno camminando; poi quello narrativo, cioè perché si trovano lì, e poi ce n’è un terzo, simbolico. Jaf esordisce dicendo che ha sognato Antares, chiarendo subito che la parte ambientata nel Medioevo è un sogno mentre quella in cui si trova lui è la realtà. Jaf, raccontando quanto ha sognato, sta di fatto iniziando a costruire se stesso; veniamo a sapere infatti che non ha memoria della vita precedente all’inizio di questi viaggi, di cui Antares, in sogno, è la guida. Non ricorda nulla e quindi c’è un rovesciamento in tutto il fumetto tra chi è reale e chi no. Non lo sono tutti e due? O quello che dovrebbe esserlo non lo è? Ci sono dei messaggi subliminali all’interno del fumetto che ti spiegano come Jaf, pur essendo reale, risulta essere inconsistente, sembra non esistere. La sua realtà è sempre vacua, acquosa, fatta di colori freddi, invece il passato ha colori caldi, date specifiche, ci sono fatti storici realmente accaduti, personaggi storici realmente vissuti. Norandino, per esempio, era cazzutissimo. E questo porta a una lettura successiva della storia, quella che ho dato io, e cioè che Jaf in realtà non esiste.
Elettra: veramente è entrato l’altro giorno in galleria.
Martoz: infatti! Vedi? Nel fumetto non esiste e nella realtà sì.
Elisa: questa cosa dell’inconsistenza di Jaf, mi è venuta in mente quando ho letto il pezzo in cui Jaf dice di essere come una macchia. Questa analogia la fa anche con i ricordi, cioè per lui i suoi ricordi sono macchie, ma di fatto ripete più volte che lui non ne ha. Per cui, di conseguenza, lui si paragona a qualcosa che in realtà, in lui, non esiste. Per questo ci ho pensato.

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Martoz: ora ti dico un’altra cosa che non ho detto a nessuno e che ho pensato prima di scrivere Amore di lontano. Mi sono immaginato gli esseri umani come stelle cadenti che piombano sulla Terra. Per cui da quel momento l’anima si incarna e prende forma e vive la vita nel suo tempo. Ho immaginato queste due figure che si conoscono prima di cadere sulla Terra. Ma una volta cadute, succede qualcosa per cui queste due anime cadono in due tempi diversi e finiscono in due ere distanti mille anni. Come facciamo? Mi sono per cui immaginato in questa situazione, per un errore, una delle due anime si risveglia mille anni dopo e siamo io e te in due tempi diversi. Come fa l’universo a risolvere questo problema? Lo fa creando un ponte tra questi due personaggi e Jaf è il ponte. Non ha un’esistenza indipendente ma esiste come ponte tra Mila e Antares. Tant’è che Mila al tempo di Antares nessuno la vede, tutti ne parlano, ma lei non c’è. Per cui Jaf non ha memoria perché è stato creato solo per unire Antares e Mila. Per questo non ha una sua dipendenza. E ha questa caratteristica surreale dello scomparire nel momento in cui chiude gli occhi perché lui è connesso ad Antares. Per questo quando Antares si sposta anche lui si sposta, perché mantiene questo ponte che permette di unire in tempi diversi Mila e Antares. Non l’ho mai detto a nessuno, non so se è uno spoiler. A un certo punto c’è proprio una parte in cui si dice che lui è un ponte. Il fumetto ti vende che Mila è una costante ma poi quello che succede nella realtà è che lei non la vediamo. Norandino a un certo punto gli dice proprio «non ne vale la pena, non c’è niente per te».
Elisa: devo dire che in realtà io ho pensato a Mila come a una condizione, uno stato. Perché Antares a un certo punto la definisce come «un giorno senza morte». Ho pensato quasi fosse un luogo.
Martoz: sì, perché nella storia Mila ha un duplice significato, che va al di là dall’essere una persona fisica.
Elisa: sì scusami infatti nell’appunto dopo sottolineo il fatto che tutti e due, a un certo punto, sia Jaf sia Antares, si feriscono e nessuno dei due vuole farsi curare.
Martoz: sì, sì, sì, esattamente, entrambi vanno oltre le loro capacità fisiche solo per raggiungere il loro obiettivo. Mila ha un valore maggiore rispetto a quello di una persona fisica. Per Antares rappresenta la fine di una vita fatta di morte, lui è un veterano, a un certo punto viene anche detto che lui ha combattuto trent’anni prima, quindi è più di trent’anni che combatte.

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Elisa: la sua assenza, infatti, la giustificavo così, pensando non fosse una persona.
Martoz: esatto, a lui lo rimproverano per tutto il fumetto perché si è innamorato di una donna per sentito dire. È proprio un’idealizzazione, non l’hai mai vista. Per cui lui vede in questa donna effettivamente un luogo fisico simile al paradiso, ma non è luogo, è uno stato, una condizione. È la fine di una vita di guerra. Un giorno senza morte vuole dire il primo giorno in cui vivrai senza combattere, senza uccidere.
Elisa: e i nomi?
Martoz: Mila si chiama così perché la contessa di Tripoli di cui si innamora Rudel si chiama Melisenda, per cui è un diminutivo. Tutti gli altri sono nomi parlanti. Jaf è Jaufré Rudel, Antares invece è una stella della costellazione dello Scorpione che è come hanno soprannominato Antares per via della mano mozza.
Elettra: pensavo già ci fosse un significato astronomico.
Martoz: ma sì, c’è, come vi ho detto prima, ho immaginato Antares come una stella caduta.
Marta: ieri l’ho chiamato per chiedergli la spiegazione di una delle tavole in cui c’era una formula.
Martoz: sì è una parte del nome della stella. Tutto è partito da quello che ho detto prima, lo dovete immaginare come una stella caduta sulla Terra. Quindi tutto parte da lì, mi piaceva l’idea di un personaggio tanto letale da essere chiamano ‘scorpione’, come avviene nel calcio, e mi piaceva il rapporto tra il nome e la costellazione perché rafforzava il legame con il cielo, con l’idea che tutto è connesso in una cosa più grande.
Elettra: parliamo un po’ delle sculture. Quando hai conosciuto Mauro Pietro Gandini e perché hai pensato di rifare i tuoi personaggi in scultura. È stata tua l’idea, no?
Martoz: l’ho conosciuto a Vicenza a Illustri che è una Biennale di Illustrazione. Ha fatto sculture per Dylan Dog, Ratman, eccetera. Un giorno è venuto a Roma a fare una presentazione e mi ha portato un regalo: la scultura della testa di Remi Tot. Mi ha stupito. Lo aveva fatto con dei materiali pensati da lui. Ha una capacità immensa di trasformare in forme tridimensionali quello che è un atteggiamento grafico. Quello che tu simuli nel bidimensionale, lui lo riproduce in 3D. Mi ha emozionato molto ritrovarmi in 3D, perché aveva sposato il mio stile, mi aveva letto. Mi aveva tradotto in scultura. Dunque ci siamo conosciuti lì, grazie a questo suo gesto e alla fine ho pensato di proporgli una mostra. Adesso stavamo pensando di farne un’altra a Parigi, dove saranno esposti i disegni da cui sono tratte le sculture ma sarà il contrario, sarà la sua personale a cui io darò il mio contributo. Per cui le sue sculture saranno in primo piano mentre i miei disegni figureranno come bozzi preparatori.
Marta: bozzi?!
Martoz: se vabbè bozzi… bozzetti preparatori. Mi hai messo vino o acqua Marta?
Marta: niente, niente stavolta!
Martoz: aho ogni volta che pensavo di averlo finito, tac, il bicchiere era di nuovo pieno.

E poi, niente, è arrivato l’amaro.


Elisa Albanesi è nata a Ostia nel 1989. Laureata in Storia dell’arte contemporanea, collabora con la galleria Parione9 e lavora presso La Quadriennale d’arte di Roma.

Marta Bandini è nata a Roma nel 1990. Laureata in Storia dell’arte contemporanea, fonda nel 2014 la Parione9 gallery insieme ad Elettra Bottazzi, dove lavora come gallerista e curatrice di mostre.

Elettra Bottazzi è nata a Milano nel 1989. Laureata in Storia dell’arte contemporanea, fonda nel 2014 a Roma, insieme a Marta Bandini, la galleria d’arte Parione9. Collabora da diversi anni con l’artista romana Giosetta Fioroni.


[Quella Brutta China] Su “Morire in piedi” di Adrian Tomine

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 – Silvia Costantino –

Con tutto che i fumetti, prima dell’avvento del cosiddetto graphic novel, si sono sempre contraddistinti per la forma breve, nella mia seppure non scarsissima dimestichezza con il genere non avevo mai pensato alla possibilità di una raccolta di racconti a fumetti. Forse perché le due cose mi sono sempre apparse separate: da una parte c’erano i Topolino e gli episodi dei fumetti Marvel e le infinite serie di tankobon allineate nella scrivania, dall’altra c’erano i cosiddetti romanzi grafici, dalla progettualità più ampia e coesa, con le loro lunghe storie uniche divise in capitoli (capitoli, non episodi). Un primo, primissimo tarlo di una possibile affinità mi ha morsa quando ho avuto modo di leggere la splendida raccolta di Daniel Handler, Avverbi (Alet, 2007, tradotto da Anna Mioni) la cui copertina è illustrata da Daniel Clowes, l’autore di quel capolavoro che si chiama Ghost World. Se quel libro è bellissimo lo è anche grazie alla copertina: non è difficile immaginare i protagonisti dei racconti con i tratti di Clowes, ma non solo, non è difficile pensare che Clowes possa avere scritto quei racconti. Sicuramente li ha letti, perché non un dettaglio, in quella copertina, è casuale. La vicinanza di temi, di stile, quel misto di paradossale e di tristissimo che c’è in entrambi gli autori rende perfetta e indissolubile la commistione.

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Non è facile capire quanto contino le definizioni: quale è, in effetti, la differenza tra un bel volume di storie autoconclusive scritto dall’autrice di M.a.r.s. e un racconto a fumetti? Solo il nome, e forse, la nazionalità. Dopo la prima stesura di questo pezzo ho fatto una piccola indagine su twitter. Chiedevo: «Se dico racconti a fumetti cosa mi rispondete?». In pochi hanno pensato subito al graphic novel inteso come l’opinione comune lo intende, la maggior parte tra coloro che ha risposto ha citato subito Dylan Dog e vari albi ‘a puntate’. Se aggiungevo «…ma non albi di fumetti», si creava in quasi tutti lo stesso corto circuito che è capitato a me: quanto può una definizione.

Will Eisner

Eppure la definizione di graphic novel nasce proprio perché gli editori non volevano pubblicare ‘comics’: è stato Will Eisner il primo a definire i propri lavori «romanzi grafici» in modo consapevole e volontario, e A contract with God, la sua prima pubblicazione, non è che una raccolta di quattro racconti. La bipartizione in racconto e romanzo, così semplice e istintiva nella narrativa solo scritta, insomma, non si è riprodotta fedelmente in quello che è ancora considerato un sottogenere. Rimane, come ho provato a dimostrare in modo un po’ confuso, solo un’altra bipartizione, quella più pericolosa e ambigua tra fumetto e graphic novel, ovvero tra prodotto «per le masse» e «prodotto di qualità». Ovvero: Bonelli, Marvel, Planet Manga da una parte e Rizzoli Lizard, Coconino Press, Bao o Tunué dall’altra. Che è quasi assurdo, se si pensa al fatto che alcuni degli autori pubblicati tra i secondi hanno esordito in piccole strisce (quanto di più lontano dal novel possibile) sulle riviste; e i primi sono quasi feuilleton. Sono forse distinzioni pelose: Sei tu mia madre? è “più” un romanzo rispetto a Dykes to watch out for, ma sono figli della stessa autrice e raccolti dallo stesso editore sotto la medesima definizione.

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C’è però chi, da queste sottigliezze, ricava una poetica più o meno precisa, più o meno volontaria. Nel 2016 Rizzoli Lizard pubblica Morire in Piedi, di Adrian Tomine (classe 1974 e già autore di quattro raccolte e di svariate copertine del New Yorker). Una copertina che ammicca a un Hopper decadente e modernizzato, con il cubo blu dell’IKEA che si defila sul margine destro nel tramonto rosa e giallastro, il titolo (originariamente Killing and Dying, ma niente da ridire sulla traduzione) stampigliato grosso e sbandierato a sinistra sull’immagine, come in una qualunque cartolina da facebook, il nome dell’autore piccolo in stampatello, in alto al centro, e, piccola piccola, in verticale, poco sopra l’IKEA, la scritta “racconti” (stories, in inglese).

As a serious cartoonist, one secretly hopes to create “That Book”: a book that can be passed to a literary-minded person who doesn’t normally read comics; one that doesn’t require any explanation or apology in advance and is developed enough in its attitude, humanity and complexity that it speaks maturely for itself… Adrian Tomine’s Killing and Dying may finally be That Book, and I’m amazed and heartened by it.

Chris Ware

I sei racconti di Morire in Piedi, tutti slegati tra loro, sono storie di persone comuni, che provano e – spesso – falliscono, che, come recita la quarta di copertina, si sforzano «di mantenere il controllo in situazioni che puntualmente sfuggono di mano». Si tratta quasi sempre di incontri, più o meno desiderati, che possono cambiare la vita o trasformarsi in ossessioni, in incubi come nell’opprimente Forza Gufi, o in tentativi di avvicinamento come nel racconto eponimo, una storia agrodolce di padre e figlia. Inutile, forse, raccontare le trame: come nei migliori racconti realisti, riassumere uno di questi frammenti di vita significherebbe banalizzarlo.

Cosa invece riesce a esaltare i pregi, già notevoli, delle storie di Tomine è il suo stile: semplice, quasi da fumetto anni ’50 – addirittura nel primo racconto la coloratura emula (o è fatta con) la retinatura, la tecnica che Lichtenstein ha esaltato e ingrandito nelle sue opere. Il talento di Tomine sta soprattutto nella capacità di variare, e in qualche modo di adattare il suo tratto al racconto. Tradotto dal giapponese: è un brevissimo racconto disegnato in modo minimalista e preciso, due, massimo tre tavole grandi per pagina quasi senza figure umane, dalle linee nette e pulite, dai colori spesso freddi; un richiamo non solo all’ambientazione del racconto ma anche al suo contenuto, il racconto di un taglio netto e di un’assenza. Quasi specularmente il primo dei racconti, Una breve storia della forma d’arte nota come “Ortiscultura”, è più caotico, le figure sono spesso agitate, ci sono onomatopee e nuvolette di movimento; la divisione è classicamente quella a quattro a quattro dei fumetti su giornale, con tanto di titoletto su ogni vignetta per ricordare al lettore cosa stia leggendo. Parrebbe quasi di leggere una storia di Dagoberto e Blondie, una striscia di Andy Capp, se non fosse per l’angoscia che scaturisce dalla ripetitività delle scene. E ancora, Amber Sweet è un racconto pop disegnato in modo pop, Morire in Piedi sono tante piccole istantanee che raccontano l’evoluzione di un rapporto, Forza Gufi è spessa e netta e Intrusi è grossolana, claustrofobica.

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morire in piedi

Ma lo scarto di qualità, ciò che ancora di più rende evidente il grandissimo talento di Tomine, sta nell’uso dei colori. Forse ancora più che con il tratto, Tomine riesce a dare ai propri racconti una vera e propria fisicità, che sia il pop pastello di Amber Sweet o il seppiato spento di Forza Gufi (che, se non si fosse capito dalla frequenza con cui lo nomino, è uno dei miei due racconti preferiti – l’altro è Morire in piedi). E senza perdere niente di una propria assoluta originalità e riconoscibilità.

Quella di Tomine è, di fatto, una raccolta di racconti a fumetti: anche se manca, o non è sufficientemente avvalorata, la definizione di «graphic short stories», questo libro si inserisce perfettamente nella migliore tradizione degli scrittori di racconti americani, quelli con l’alcolismo più o meno latente e una visione di fondo cupa, ma tutto sommato innamorata della vita. Carver ovviamente, Rick Moody, Patricia Highsmith, Alice Munro (ok, è canadese, ma come non citarla?), Deborah Willis e via andando, ognuno di loro con la propria interpretazione della provincia americana, della vita che sfuma verso i margini e cola lungo i bordi della Storia che non li considera degni di attenzione mai, se non per un luminoso istante. Non so se questo significa che è necessario introdurre una nuova distinzione, quella appunto tra racconti grafici e romanzi grafici, o se semplicemente sia necessario interrogarsi meno sulle etichette e sui generi e considerare buona letteratura tutto ciò che è buona letteratura, che sia disegnato o scritto; certo è che in una mia ideale libreria le storie di Manuele Fior starebbero lì tra la narrativa italiana contemporanea; e Morire in piedi starebbe accanto al libro di Handler, di pieno diritto dopo Carver e Moody.

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Silvia Costantino Ama i libri, la fotografia, le serie tv e i film della Marvel. Vive a Firenze, dove ha organizzato il festival Firenze RiVista e ogni tanto presenta un libro. È fondatrice e redattrice di 404: file not found, è nella board editoriale di The FLR, ogni tanto appare su Abbiamo Le Prove. Ha un alter ego, Giorgeliot, che si diverte a raccontare i fatti suoi.


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