– Elisa Albanesi, Marta Bandini, Elettra Bottazzi –
– Intervista e introduzione a cura di Elisa Albanesi –
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Dopo il successo ottenuto con Remi Tot in Stunt (2015), edito da MalEdizioni, torna con una nuova pubblicazione, uno dei talenti emergenti del fumetto italiano: con Amore di lontano (Canicola Edizioni) Martoz, al secolo Alessandro Martorelli, riprende e omaggia I fiori blu di Raymond Queneau e la Canzone dell’amore di lontano di Jaufré Rudel creando una storia complessa, talune volte criptica, costruita attraverso la ripresa del formalismo cubista, con vere e proprie citazioni di quadri-icone dell’arte contemporanea.
Due presenti, due dimensioni, due personaggi: da una parte lo ‘scorpione’ Antares, il romantico quanto letale eroe cortese, partito insieme alla Seconda Crociata con il solo scopo di incontrare la donna amata di cui ha solo sentito parlare; dall’altra Jaf, l’uomo contemporaneo immerso in una realtà vacua che, privo di memoria, trascorre l’esistenza assecondando la sua satiriasi e condividendo con il cavaliere medievale protagonista dei suoi sogni, la febbrile ricerca di Mila e di quel tanto agognato “giorno senza morte”.
Le tavole originali di Amore di lontano sono state al centro della prima personale romana di Martoz presentata dalla galleria Parione9 e conclusasi il 6 novembre scorso. Insieme ai disegni sono stati esposti anche i ritratti dei protagonisti, modellati dallo scultore Mauro Pietro Gandini. In passato, mi ero imbattuta in una tela e in alcuni disegni di Martoz. Da subito avevo apprezzato la libertà con cui alterava l’anatomia umana, la spessa e aguzza linea di contorno, la ricerca di una cifra riconoscibile e, al contempo, la conoscenza precisa di quanto accaduto nelle altre arti nel corso del Novecento.
Di interviste, in questi due mesi, ne sono state fatte tante e per questo ho deciso di optare per una chiacchierata – quanto segue ne è una semifedele trascrizione – in compagnia delle due galleriste che hanno presentato l’originale lavoro di questo artista. Tra gli intenti, c’è anche quello di mostrare le dinamiche che intercorrono tra due figure, quello dell’artista e quello del gallerista, all’interno di una galleria in crescita e intenta a costruire una nuova realtà. Non mentirò a riguardo: con Marta Bandini ed Elettra Bottazzi c’è prima di tutto un rapporto di amicizia e posso affermare con convinzione che, se ne avessi il potere, le inserirei senza esitazione in un eventuale comitato di accoglienza terrestre nel caso di un’invasione aliena. La loro capacità di creare un rapporto personale con l’artista, ha influito sulla mia scelta di coinvolgerle in questa intervista. Con subdoli escamotage, come quello di far ubriacare l’artista, siamo riuscite nell’intento di farci raccontare da Martoz aneddoti e informazioni utili alla lettura del suo nuovo fumetto. Per ragioni di paraculaggine e per timore di essere linciata, confesso di aver eliminato dalla trascrizione svariati elogi alla spesa della domenica, insulti vari a politici, nonché aneddoti riguardanti attacchi di scimmie a Bali e una bizzarra quanto inaspettata citazione di Osho.
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Martoz: taglio il pane?
Elettra: no, no sei ospite.
Martoz: porto questo allora. Sta andando il registratore?
Elettra: Marta hai messo il timer per la pasta?
Elisa (al bagno): ho messo il sale!
Marta: il timer, non il sale! Comunque Elisa ha già messo il sale!
Elettra: tu l’hai messo il timer?
Marta: no…
Elettra: te pareva. È pronta?
Marta: aspe’…
Elettra: è pronta, è pronta, è pronta, si vede dalla morbidezza! Allora, dammi il piatto Ale!
Martoz: prima le signore.
Elettra: prima gli ospiti…
Martoz: allora lei (Elisa) anche è un’ospite.
Elettra: ma lei ha il riso in bianco come i malati.
Elisa: con questo riso ho perso qualsiasi diritto di precedenza. Non sono né un’ospite né una signora.
Martoz: io adoro il riso. Quando ero piccolo andavo al ristorante giapponese con mio padre e prendevo solo riso in bianco.
Elisa: pensa quanto erano contenti quelli del ristorante!
Elettra: qui c’è il formaggio. Ah! E ho infilato le dita dentro i bicchieri.
Martoz: grave, grave, per me l’intervista può finire qui.
Elettra: io non parlo.
Martoz: guarda che è già acceso il registratore. È per questo che stiamo parlando male di tutti.
Elettra: ah! Non te l’ho detto! Domenica, in galleria, entra questo signore che mi chiede per quanto tempo può rimanere a guardare le tavole. Io gli dico che per me può rimanere quanto vuole, solo che alle 20 chiudo. Mi siedo e dopo un po’, mentre stava uscendo, mi si avvicina e mi fa: io mi sento proprio come Jaf. Io sono Jaf.
Martoz: madonna, ma è uscito da un film!
Elettra: ma tu lo sai che prima o poi devi fare un fumetto con una protagonista donna, vero? O l’hai già fatto?
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Martoz: ti dico una cosa molto seria. Per usare una protagonista donna c’è bisogno di più maturità. Per cui, magari tra qualche anno.
Elettra: ma perché non è dello stesso sesso o in generale è una cosa che…
Martoz: perché io sono una persona molto emotiva. Sono un autore molto emotivo. Quindi all’inizio, quando gestisci meno il processo di elaborazione di un fumetto e, di conseguenza, lo fai in maniera più intuitiva, ti viene più spontaneo che la voce di dentro sia maschile. Quando usi un metodo intuitivo di elaborazione della storia e dei testi, ti viene proprio spontaneo pensarlo attraverso di te, per cui in un certo senso tutti i fumetti che ho fatto sono autobiografici. Ovviamente non in senso stretto ma in senso emotivo.
Elettra: e quindi nel caso tu volessi fare un fumetto in cui impersoni un bambino, in che modo questo cambierebbe la storia?
Martoz: la cosa più divertente, secondo me, di quando hai acquisito una certa padronanza del mezzo, è guardare con gli occhi di qualcun altro, come una donna, un bambino, un cane o un robot. Fare un fumetto in cui il protagonista non è qualcuno che tu potresti essere, mi diverte, è rinfrescante.
Elisa: ma la storia prima la scrivi e poi la disegni? O c’è proprio una fase di scrittura?
Martoz: elaboro tutto, mentalmente, per mesi e mesi. Per esempio ora sto scrivendo una nuova storia e immagino le varie situazioni mentre vado in bicicletta.
Elisa: per cui prima c’è la fase in cui ti limiti a immaginare.
Martoz: sì, poi a un certo punto, per comunicarlo all’editore, scrivo una pagina in cui riassumo la trama e vado per punti chiave. Per esempio ieri ho fatto un giro in bici che dovevo fare dei giretti per lavoro…
Marta: la bicicletta è fondamentale per lui.
Martoz: sì la bicicletta è fondamentale, io ci credo molto al fatto che la mia mente si attiva mentre mi muovo. Cioè quando io sto fermo, si spegne. Se mi metto seduto e dico: “ora mi invento un fumetto”, non ci riesco. Sono peripatetico.
Marta: comunque anche di Amore di lontano, hai detto che l’hai pensato in movimento, in metro no?
Martoz: l’ho pensato in autobus, sì.
Elisa: ma su che autobus?
Martoz: sul 446.
Elisa: andare in bicicletta a Roma comunque è tosta.
Martoz: sì, sì è tosta.
Elisa: mia madre non mi faceva mai uscire dal cancello di casa per cui per me la bicicletta non è mai stata una cosa molto divertente. Giravo in tondo dentro al giardino di casa. Non capivo proprio il senso della bicicletta.
Martoz: invece il movimento mi stimola. La nuova storia che sto scrivendo è abbastanza complessa però è tutta nella mia testa e siccome a novembre dovrò presentarla, dovrò inevitabilmente scriverla.
Elisa: però da che prendi spunto? E perché scegli una storia al posto di un’altra?
Martoz: mi hai ricordato che mi sono dimenticato una storia bellissima. In genere il gancio è emotivo, succede qualcosa di specifico che mi fa immaginare qualcosa. Ma non è una cosa volontaria cioè esiste per esempio il fumetto di realtà che si occupa di guerre, ecc. in cui, se lo vuoi fare in maniera seria, sei costretto a fare qualcosa di realistico. Io che, per ora, non faccio fumetto realistico, non ho questo vincolo, non decido cosa fare. Piovono le cose dal cielo, da suggestioni. Per esempio, Amore di lontano è nato anni fa, quando ho visto un servizio sul turismo sessuale e quindi c’era questa cosa del viaggio per raggiungere una donna, oggi, nel nostro tempo e nel contempo, a scuola, stavo studiando la poesia francese del Medioevo e, in particolare, questo Jaufré Rudel che partiva alla ricerca di una donna sconosciuta e che, di fatto, faceva la stessa cosa. Per cui ho voluto fare una reinterpretazione del viaggio di Jaufré Rudel nel presente. E mi piaceva questo contrasto tra altissimo e bassissimo. La cosa più alta che puoi fare è morire partecipando a una crociata per incontrare una donna che non conosci e della quale ti sei innamorato. Dall’altra parte, invece, c’è la cosa più bassa che si può fare, prendere un aereo e andare in Tailandia. Sono due cose talmente contrastanti che mi interessava tantissimo questa analogia, perché in realtà è esattamente lo stesso schema e così in autobus ho immaginato questa cosa. L’ho tenuta in mente per anni e poi ci sono state delle aggiunte.
Elisa: si vede perché è complesso, ci sono tantissimi dettagli… a un certo punto ho chiamato Marta e le ho detto: «Ma li vedo io i richiami a Picasso, o sono pazza?». Mi è sembrato ci fossero molte citazioni.
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Martoz: sì, diciamo che a volte hanno un significato nella storia. A volte hanno un valore narrativo, altre volte sono nascoste nei paesaggi.
Elettra: ti faccio una domanda da gallerista: se io e Marta, il prossimo anno, ti proponiamo un’altra personale slegata dal fumetto, tu costruiresti una storia usando solo un certo numero di quadri, tavole, compensati, così o non ti ritroveresti come nel fumetto?
Martoz: no, certo. Cioè tu intendi: raccontare una storia usando singole immagini in cui ognuna è un’opera?
Elettra: esatto. Cioè slegato dal fumetto che comunque è fatto di una serie di pagine, di cose che possono accadere, mentre qui la sintesi sarebbe fondamentale. Poco, diretto, non stampato. Originale. Almeno io, ti ho conosciuto prima come disegnatore e vedendo i tuoi schizzi ho pensato: «E lui chi è?». Mi è piaciuta la mano, il segno, il gesto.
Martoz: c’è un momento in cui il fumetto diventa un limite perché nonostante sia una grandissima opera d’arte – infatti, in questa fase, ho di nuovo un crescente interesse per il fumetto – non deve essere considerato come cinema e letteratura mescolati, perché così facendo lo si considera come un’arte di secondo piano. Non è né cinema né letteratura o non è cinema e letteratura di serie b, è proprio un’altra cosa e basta. E lo diventa nel momento in cui tu inizi a usare le sue potenzialità, facendo cioè quello che puoi fare solo usando il fumetto.
Elisa: l’errore infatti secondo me sta nel cercare di farlo assomigliare a qualcos’altro. Ha una sua tecnica per cui devi semplicemente imparare a usarla nel migliore dei modi, senza fare paragoni. Come spesso faccio io con la pittura.
Eletta: sì, anche se è bello pensare che quasi inconsapevolmente alcune icone dell’arte vanno da qualunque parte a spaziare.
Elisa: sì, anche se per me c’è un problema. Noi pensiamo sempre che la pittura abbia influenzato le altre tecniche. Mentre con più difficoltà senti una riflessione su come le altre tecniche hanno influenzato la pittura.
Martoz: un artista può anche variare con il mezzo. Bob Dylan, per esempio, non solo era un musicista, ma era anche un disegnatore e i suoi disegni sono fichissimi. Suonava, scriveva, disegnava e inoltre è vivo per cui forse dovrei usare il presente. Ma qui il discorso è un altro, il problema è che siamo abituati a vedere il fumetto come a un’imitazione di qualcos’altro. Il grande limite dei fumetti commerciali tipo Tex, è che simulano qualcosa che esiste già nel cinema. Allora perché io devo leggermi Tex quando posso vedermi un western fichissimo? Che poi a me Tex piace molto, per cui è un esempio così, tanto per far capire il discorso.
Elettra: sì, anche perché se mio zio ti sente si incazza.
Martoz: Tex è una versione cinematografica del disegno, cioè è il disegno che vuole essere cinematografico. Che ci può stare, ma se esageri questa cosa, che senso ha? Guardati un film. Il fumetto mi interessa nel momento in cui ti dà qualcosa che solo il fumetto può darti.
Elisa: penso che il punto sia non porsi limiti con il mezzo.
Martoz: infatti sono un paio di anni che sto affrontando la questione dei limiti. In un’altra intervista, Luca Raffaelli mi ha chiesto di rispondere a una domanda per iscritto che sarebbe stata poi pubblicata sulla pagina facebook di Sbam. La domanda era: quali sono i limiti da superare? E io ho risposto che nel mio lavoro cerco sempre di superare i limiti dell’accettabile. Quando lavoro a un fumetto, tutto ciò che credo ammissibile deve essere di volta in volta distrutto per cercare nuove strade. Il sistema di elementi che definisce un lavoro ‘inappuntabile’ deve essere disatteso, mettendo in discussione soprattutto la propria idea del bello. Che vuol dire questo? Io ho studiato con Riccardo Mannelli e lui una volta mi disse una frase che non mi scorderò mai: «Voi venite qui, a fare i vostri disegnini e siete tutti rigidi invece dovete liberarvi perché la cosa che avete sempre in testa, questa frasetta che avete sempre in testa è: “Oddio non sapevo che si potesse fare!” Per cui dalle cose più semplici, tipo disegnare un cazzo, alle cose più complesse come per esempio parlare di guerra, della morte, della violenza, questa frase “non sapevo si potesse fare”, è fondamentale perché in realtà poi la lotta che facciamo ogni giorno è contro noi stessi, per superare i limiti che noi stessi ci imponiamo. Quindi quando mi mettevo a fare un fumetto non sapevo di poterlo fare brutto. Perché non posso fare un fumetto brutto? Per esempio Michel Gondry ha fatto un fumetto (Abbiamo perso la guerra ma non la battaglia pubblicato per la prima volta nel giugno 2013 dalla Bao Publishing) perché si era stufato di inseguire i produttori e quindi ha deciso di disegnarlo. Io l’ho guardato questo fumetto e per me è geniale. È disegnato male pe’ dì male, però è bellissimo lo stesso, nel suo essere brutale.
Marta: oggi è venuta una persona in galleria che aveva letto l’articolo su Il manifesto (vedi l’intervista a Martoz di Virginia Tonfoni) e mi ha detto: «Lui non ha paura di fare una cosa apparentemente brutta».
Elettra: c’è la sproporzione, non c’è armonia…
Marta: ma lui lo apprezzava molto, mi ha detto: «Mi fa capire che c’è una consistenza».
Martoz: in realtà ho tutta una serie di gabbie che non si vedono. Uno pensa «questo sarà apertissimo mentalmente», e in effetti è anche vero, sulle varie questioni della vita.
Elisa: tranne che con il sushi.
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Martoz: però poi in realtà gli artisti che sembrano aperti mentalmente hanno delle fisime incredibili. Come per l’appunto quella del sushi. Ma da piccolo avevo un sacco di fisse gravissime che poi ho risolto nel tempo. Per cui di volta in volta devi abbattere i tuoi limiti perché non lo sai, è una cosa inconscia, ti rendi conto e ti dici: perché no? Per esempio ho fatto un finale alternativo di Remi Tot in Stunt, che era il fumetto precedente, e l’ho fatto alla maniera di Michel Gondry. Ho pensato: ma posso fare una cosa come cazzo mi pare? Perché no? Perché quando fai una cosa ti devi porre dei limiti? Il risultato è stata la ricerca di qualcosa di diverso in cui mettere tutti elementi arbitrari. Per esempio, la prima cosa che dicono alla scuola del fumetto è: non anticipare quanto sta per accadere. Giusto. Fanno ridere quei fumetti degli anni Ottanta, un po’ buonisti, in cui le pistole invece di fare bang fanno pif, con tanto di nuvoletta come se sparassero vapore, e una scritta «adesso gli sparo». Se mi fai vedere che gli stai sparando, non c’è bisogno della didascalia. Quello lo capisco, non voglio essere sciocco. Però in passato avevo paura a inserire il testo, temevo di diventare troppo didascalico. Temevo il narratore, quello presente anche in fumetti tipo Topolino. Volevo cavarmela solo con il disegno, tutto doveva essere chiaro anche senza il narratore, lo consideravo il male. Invece ora no. Voglio inserirlo? E perché no? Se ora voglio scrivere «adesso lui spara», lo faccio e basta. In questo finale alternativo e folle di Remi Tot, a un certo punto, in una scena in cui una tigre si arrotola in una tenda, ho inserito una freccia con una scritta che dice «la tigre si sta rotolando nella tenda». C’è stato un incidente aereo e questa tigre sopravvive e per spiegarlo ho scritto «la tigre sopravvive e rotola nella tenda e per mimesi sfugge alla morte». Non muore perché la morte non la trova, perché la tenda è dello stesso colore. Con il preconcetto che avevo prima, una cosa del genere non poteva succedere perché avevo delle pretese estetiche, perché quando uno è giovane e stupido – e io sono ancora giovane e stupido, ma quando ero ancora più giovane e ancora più stupido – ha la pretesa di voler dimostrare sempre che sa disegnare, per cui soprattutto quando sei alle prime armi, cerchi di dimostrare in ogni vignetta, in ogni illustrazione, che tutto è esteticamente fantastico, perdendo spesso di vista altre cose, come la narrazione e il ritmo. Se ogni tavola viene realizzata alla perfezione, il risultato è talmente pesante che dopo un po’ si sente male il lettore che lo legge e io che lo devo disegnare. Bisogna avere il coraggio di alternare.
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Elettra: ma tu eri quello che stavi tra i banchi, al liceo, a disegnare i professori?
Martoz: uno dei miei professori del liceo è stata una delle persone più importanti della mia vita. Gli ho dedicato Amore di lontano perché è stato lui a raccontarmi di Rudel, che non è nel programma del liceo. Ce lo raccontò in maniera molto emozionante. Mi faceva un sacco di battute su questa cosa del disegno, io facevo le caricature e lui lo sapeva. E’ un personaggio molto strambo, è un omone ma è delicatissimo, cioè di salute era fragilissimo, se prendeva un raffreddore moriva. Un giorno ci raccontò che era svenuto prendendo una storta alla caviglia scendendo da un marciapiede. Ci disse «ho messo un piede in fallo e sono svenuto». Un uomo di due metri. Infatti dicevamo che era come Dante.
Elettra: leggendo un po’ i tuoi fumetti, trovo sempre un filo di ironia intelligente, che riguarda anche il tuo approccio al lavoro.
Martoz: c’è un po’ di irriverenza ogni tanto. L’irriverenza è una reazione alla fatica dell’esistenza, sia nella mia che ci metto nel fare le cose, sia in generale per i temi affrontati, è una reazione. A me piace mescolare l’alto e il basso anche nel riso e nelle conversazioni importanti. Mettendo da parte il ritratto straordinario, penso che l’ironia sia una forma di intelligenza. C’è il sapere matematico, l’empatia e poi l’ironia. Non penso sia un caso che le persone molto intelligenti spesso sono anche ironiche. In generale, ho difficoltà a empatizzare con chi non sa ridere. In Amore di lontano è un’ironia che mi è servita anche a farmi lavorare.
Elettra: stavamo pensando che in questo momento Martoz è onnipresente nel mondo! Hai una mostra a Buenos Aires, Los Angeles e quella a San Pietroburgo. Giusto?
Martoz: contemporaneamente poi! Ma non sono tutte personali. A Los Angeles ho esposte due tavole e a Buenos Aires dieci fatte apposta per l’occasione.
Elettra: e quelle di Buenos Aires di che parlano?
Martoz: è una breve storia di un tizio, di cui non si sa nulla, che porta via da un campo di concentramento post-apocalittico un personaggio in carrozzella, salvandolo. Non è specificato il contesto, diciamo che la cosa divertente è che parlano uno spagnolo un po’ criptico.
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Elettra: te ne andresti mai dall’Italia?
Martoz: sì, certo. L’anno prossimo starò un po’ in Germania, ci andrò ogni mese. Poi non so, mi sto lasciando trasportare dagli eventi. Andrò via per un po’ da Roma per stare un periodo a Milano.
Marta: e starai lì per quanto?
Martoz: in realtà ho bisogno di andare via da Roma per riprendermi un attimo. Sono molto stressato. Ogni volta che esco di casa e devo comprare il giornale, mi devo fare un’ora di bici. Ogni volta che devo fare la spesa, preferisco non mangiare che uscire. Non sto scherzando.
Elisa: sì ti logora.
Martoz: ma non è poi che io voglio abbandonarla, io sono innamorato di Roma.
Marta: no, ma il problema è che è faticosa. Quando hai diversi appuntamenti in diversi luoghi della città, devi capire che puoi farne solo uno. È praticamente impossibile riuscire a incastrarli.
Martoz: Roma è grande e inefficiente, il problema è che, secondo me, non funzionerebbe manco se l’amministrasse San Nicola.
Elettra: politica… hai mai trattato di politica?
Martoz: no, anche se ci sono state occasioni che poi non sono andate in porto. Anche lì, però, si tratta di periodi della vita, è una cosa che ti deve venire da dentro. Se lo fai senza coscienza politica, senza cultura politica, senza informazione reale, quotidiana, sarebbe forzato e, in questo momento, sarebbe fuori dalle mie corde. Mi è capitato di fare vignette politiche, parecchie, pubblicate da solo, senza commissione, magari sul mio profilo facebook. Però non è la mia cifra al momento. Inoltre, più della politica a me interessa l’immersione nella realtà. Faccio un esempio stupido: nel finale alternativo di Remi Tot, che è intriso di realismo, a un certo punto la co-protagonista vede un aereo intento a sganciare bombe a forma di parole che mentre cadono scrivono la parola «pace». Questa è una vignetta muta in mezzo a mille altre e non c’entra quasi niente con la storia, però è un segnale per me che dimostra che mi sto affezionando a determinati temi che in qualche modo ritornano. Nella nuova storia, per esempio, parlo della violenza contro le donne e metaforicamente richiamo la questione dell’infibulazione facendo cucire al protagonista due lati di un fiume, così che possa attraversarlo.
Marta: per me la politica è la connessione che si ha con la realtà. Tu parli del turismo sessuale. Anche quello è la dimostrazione di un occhio, in qualche modo, politico. No?
Martoz: ne parlavo una volta con Eris Edizioni, una piccola casa editrice che ha fatto delle scelte straordinarie sugli autori. Con loro abbiamo affrontato le stesse questioni e siamo giunti a una conclusione: se fai qualcosa di artisticamente valido, vuol dire che fai cultura e, di conseguenza, politica. Per cui facendo dei fumetti come vuoi, fai più politica di uno che fa delle vignette che hanno l’intenzione di essere politiche. Per cui, certe volte, c’è più politica lì dove non c’è intenzione di farla. Quando uno è connesso con il mondo e fa cose oneste, fa politica. Facendo qualcosa di libero fai politica. Ma chi è che mi mette sempre il vino?
Marta: sono io!
Martoz: e infatti vedevo che «sto goccino» non finiva mai!
Elisa: ho preso appunti comunque.
Martoz: sì, infatti, parliamone prima che arrivi l’amaro.
Elisa: domande non lo so, mi sono appuntata delle cose in generale. Per esempio, nel risvolto di copertina de I fiori blu, un altro riferimento fondamentale per Amore di lontano, tradotto in italiano da Italo Calvino, Queneau scrive:
Secondo un celebre apologo cinese, Chuang-tzé sogna d’essere una farfalla: ma chi dice che non sia la farfalla a sognare d’essere Chuang-tzé? E in questo romanzo, è il Duca d’Auge che sogna d’essere Cidrolin o è Cidrolin che sogna d’essere il Duca d’Auge?
E io ho pensato che anche qui si arriva a un punto in cui non si capisce più chi è che sogna l’altro. Per esempio mi piace tantissimo che la prima inquadratura della realtà di Jaf, cioè quella che ci viene presentata come la ‘realtà’, è una situazione urbana piena di lavori in corso. Dà il senso della precarietà assoluta.
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Martoz: allora, hai appena notato una cosa che non aveva notato nessuno cioè che la prima scena è una costruzione, un lavoro in corso. Tutto il fumetto ha un valore simbolico anche se a me piacciono le storie che sono abbastanza emancipate da non avere per forza una morale o una metafora. Un po’ alla Tarantino. Cioè possono esserci cose che non significano proprio niente. Però al contempo mi piace inserire dei simboli, delle situazioni che possono avere un significato e che hanno sempre due o tre livelli: c’è il significato fisico, in quel caso, è un’ambientazione in cui i personaggi stanno camminando; poi quello narrativo, cioè perché si trovano lì, e poi ce n’è un terzo, simbolico. Jaf esordisce dicendo che ha sognato Antares, chiarendo subito che la parte ambientata nel Medioevo è un sogno mentre quella in cui si trova lui è la realtà. Jaf, raccontando quanto ha sognato, sta di fatto iniziando a costruire se stesso; veniamo a sapere infatti che non ha memoria della vita precedente all’inizio di questi viaggi, di cui Antares, in sogno, è la guida. Non ricorda nulla e quindi c’è un rovesciamento in tutto il fumetto tra chi è reale e chi no. Non lo sono tutti e due? O quello che dovrebbe esserlo non lo è? Ci sono dei messaggi subliminali all’interno del fumetto che ti spiegano come Jaf, pur essendo reale, risulta essere inconsistente, sembra non esistere. La sua realtà è sempre vacua, acquosa, fatta di colori freddi, invece il passato ha colori caldi, date specifiche, ci sono fatti storici realmente accaduti, personaggi storici realmente vissuti. Norandino, per esempio, era cazzutissimo. E questo porta a una lettura successiva della storia, quella che ho dato io, e cioè che Jaf in realtà non esiste.
Elettra: veramente è entrato l’altro giorno in galleria.
Martoz: infatti! Vedi? Nel fumetto non esiste e nella realtà sì.
Elisa: questa cosa dell’inconsistenza di Jaf, mi è venuta in mente quando ho letto il pezzo in cui Jaf dice di essere come una macchia. Questa analogia la fa anche con i ricordi, cioè per lui i suoi ricordi sono macchie, ma di fatto ripete più volte che lui non ne ha. Per cui, di conseguenza, lui si paragona a qualcosa che in realtà, in lui, non esiste. Per questo ci ho pensato.
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Martoz: ora ti dico un’altra cosa che non ho detto a nessuno e che ho pensato prima di scrivere Amore di lontano. Mi sono immaginato gli esseri umani come stelle cadenti che piombano sulla Terra. Per cui da quel momento l’anima si incarna e prende forma e vive la vita nel suo tempo. Ho immaginato queste due figure che si conoscono prima di cadere sulla Terra. Ma una volta cadute, succede qualcosa per cui queste due anime cadono in due tempi diversi e finiscono in due ere distanti mille anni. Come facciamo? Mi sono per cui immaginato in questa situazione, per un errore, una delle due anime si risveglia mille anni dopo e siamo io e te in due tempi diversi. Come fa l’universo a risolvere questo problema? Lo fa creando un ponte tra questi due personaggi e Jaf è il ponte. Non ha un’esistenza indipendente ma esiste come ponte tra Mila e Antares. Tant’è che Mila al tempo di Antares nessuno la vede, tutti ne parlano, ma lei non c’è. Per cui Jaf non ha memoria perché è stato creato solo per unire Antares e Mila. Per questo non ha una sua dipendenza. E ha questa caratteristica surreale dello scomparire nel momento in cui chiude gli occhi perché lui è connesso ad Antares. Per questo quando Antares si sposta anche lui si sposta, perché mantiene questo ponte che permette di unire in tempi diversi Mila e Antares. Non l’ho mai detto a nessuno, non so se è uno spoiler. A un certo punto c’è proprio una parte in cui si dice che lui è un ponte. Il fumetto ti vende che Mila è una costante ma poi quello che succede nella realtà è che lei non la vediamo. Norandino a un certo punto gli dice proprio «non ne vale la pena, non c’è niente per te».
Elisa: devo dire che in realtà io ho pensato a Mila come a una condizione, uno stato. Perché Antares a un certo punto la definisce come «un giorno senza morte». Ho pensato quasi fosse un luogo.
Martoz: sì, perché nella storia Mila ha un duplice significato, che va al di là dall’essere una persona fisica.
Elisa: sì scusami infatti nell’appunto dopo sottolineo il fatto che tutti e due, a un certo punto, sia Jaf sia Antares, si feriscono e nessuno dei due vuole farsi curare.
Martoz: sì, sì, sì, esattamente, entrambi vanno oltre le loro capacità fisiche solo per raggiungere il loro obiettivo. Mila ha un valore maggiore rispetto a quello di una persona fisica. Per Antares rappresenta la fine di una vita fatta di morte, lui è un veterano, a un certo punto viene anche detto che lui ha combattuto trent’anni prima, quindi è più di trent’anni che combatte.
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Elisa: la sua assenza, infatti, la giustificavo così, pensando non fosse una persona.
Martoz: esatto, a lui lo rimproverano per tutto il fumetto perché si è innamorato di una donna per sentito dire. È proprio un’idealizzazione, non l’hai mai vista. Per cui lui vede in questa donna effettivamente un luogo fisico simile al paradiso, ma non è luogo, è uno stato, una condizione. È la fine di una vita di guerra. Un giorno senza morte vuole dire il primo giorno in cui vivrai senza combattere, senza uccidere.
Elisa: e i nomi?
Martoz: Mila si chiama così perché la contessa di Tripoli di cui si innamora Rudel si chiama Melisenda, per cui è un diminutivo. Tutti gli altri sono nomi parlanti. Jaf è Jaufré Rudel, Antares invece è una stella della costellazione dello Scorpione che è come hanno soprannominato Antares per via della mano mozza.
Elettra: pensavo già ci fosse un significato astronomico.
Martoz: ma sì, c’è, come vi ho detto prima, ho immaginato Antares come una stella caduta.
Marta: ieri l’ho chiamato per chiedergli la spiegazione di una delle tavole in cui c’era una formula.
Martoz: sì è una parte del nome della stella. Tutto è partito da quello che ho detto prima, lo dovete immaginare come una stella caduta sulla Terra. Quindi tutto parte da lì, mi piaceva l’idea di un personaggio tanto letale da essere chiamano ‘scorpione’, come avviene nel calcio, e mi piaceva il rapporto tra il nome e la costellazione perché rafforzava il legame con il cielo, con l’idea che tutto è connesso in una cosa più grande.
Elettra: parliamo un po’ delle sculture. Quando hai conosciuto Mauro Pietro Gandini e perché hai pensato di rifare i tuoi personaggi in scultura. È stata tua l’idea, no?
Martoz: l’ho conosciuto a Vicenza a Illustri che è una Biennale di Illustrazione. Ha fatto sculture per Dylan Dog, Ratman, eccetera. Un giorno è venuto a Roma a fare una presentazione e mi ha portato un regalo: la scultura della testa di Remi Tot. Mi ha stupito. Lo aveva fatto con dei materiali pensati da lui. Ha una capacità immensa di trasformare in forme tridimensionali quello che è un atteggiamento grafico. Quello che tu simuli nel bidimensionale, lui lo riproduce in 3D. Mi ha emozionato molto ritrovarmi in 3D, perché aveva sposato il mio stile, mi aveva letto. Mi aveva tradotto in scultura. Dunque ci siamo conosciuti lì, grazie a questo suo gesto e alla fine ho pensato di proporgli una mostra. Adesso stavamo pensando di farne un’altra a Parigi, dove saranno esposti i disegni da cui sono tratte le sculture ma sarà il contrario, sarà la sua personale a cui io darò il mio contributo. Per cui le sue sculture saranno in primo piano mentre i miei disegni figureranno come bozzi preparatori.
Marta: bozzi?!
Martoz: se vabbè bozzi… bozzetti preparatori. Mi hai messo vino o acqua Marta?
Marta: niente, niente stavolta!
Martoz: aho ogni volta che pensavo di averlo finito, tac, il bicchiere era di nuovo pieno.
E poi, niente, è arrivato l’amaro.
Elisa Albanesi è nata a Ostia nel 1989. Laureata in Storia dell’arte contemporanea, collabora con la galleria Parione9 e lavora presso La Quadriennale d’arte di Roma.
Marta Bandini è nata a Roma nel 1990. Laureata in Storia dell’arte contemporanea, fonda nel 2014 la Parione9 gallery insieme ad Elettra Bottazzi, dove lavora come gallerista e curatrice di mostre.
Elettra Bottazzi è nata a Milano nel 1989. Laureata in Storia dell’arte contemporanea, fonda nel 2014 a Roma, insieme a Marta Bandini, la galleria d’arte Parione9. Collabora da diversi anni con l’artista romana Giosetta Fioroni.